di Alice Fill e Francesco Moresco
Premessa
Il crollo delle partenze dalla Libia, registrato a partire dal 2017 a seguito dell’introduzione di politiche di controllo della mobilità, ha contribuito a trasformare il paese in un carcere a cielo aperto. In questa situazione di “stallo forzato” dei migranti, il ricorso alla detenzione per un tempo indefinito costituisce la strategia cardine di gestione dei flussi irregolari tanto da parte dei trafficanti (come metodo per concentrare in un solo luogo gli individui da mercificare), tanto da parte del governo libico (come metodo di punizione/neutralizzazione della persona “migrante irregolare”). La stessa legge libica in materia di immigrazione irregolare prevede la detenzione e in vari casi la sottoposizione a lavoro forzato. Secondo l’OIM, nel 2019, sul suolo libico è stata stimata la presenza di circa 663.000 migranti, quasi 50.000 dei quali riconosciuti dall’UNHCR come rifugiati o richiedenti asilo.
Il traffico di esseri umani nell’avvicinamento alla Libia
Per quanto la Libia costituisca una tappa particolarmente tragica dell’esperienza migratoria, le situazioni di assoggettamento e abuso rappresentano una costante che si articola lungo tutto il percorso migratorio.
La criminalizzazione sempre più accentuata dell’immigrazione irregolare e la carenza di vie legali di accesso all’asilo nei Paesi europei hanno, infatti, minato alla radice la possibilità di una migrazione sicura ed autonoma. Ad oggi, spesso, i viaggi verso e attraverso la Libia si suddividono in una serie di “segmenti” (i c.d. transit spaces), in ciascuno dei quali l’emergere di sostanziali ostacoli – spesso politicamente determinati – alla continuazione del viaggio pone la persona in una condizione di dipendenza pressoché totale verso i suoi trafficanti (c.d. gatekeepers), di fatto gli unici detentori delle competenze, mezzi e contatti sociali necessari a proseguire lungo la rotta.
Questa condizione di “dominio di fatto” si verifica, in particolare, nel corso della traversata del deserto che si sviluppa prevalentemente nella duplice direttrice Mali-Algeria-Libia e Sudan-Libia; nelle città del sud della Libia (Sebha, Qatrun, Cufra) si assiste di frequente alla “cessione” (spesso lucrativa) di comitive di migranti da un gruppo di trafficanti ad un altro e successivamente nelle città della Tripolitania. I migranti dipendono inoltre dalle milizie locali nell’organizzazione della traversata via mare.
Durante l’attraversamento dei differenti segmenti di transito, il singolo migrante si trova generalmente nell’impossibilità sostanziale di opporsi ad eventuali trattamenti abusivi. Non a caso, i tre segmenti evidenziati sono quelli nei quali si registra il più alto tasso di violenze fisiche e sessuali, episodi di sfruttamento, detenzione a scopo di estorsione e riduzione in condizione di schiavitù.
Effetti delle politiche europee di blocco delle partenze
Se un’analisi esaustiva delle rotte che coinvolgono la Libia e dei ricollocamenti che seguono lo sbarco va oltre le possibilità di analisi di questo articolo, il tentativo di unire i tasselli raccolti da diverse fonti per ricostruire l’esperienza di sfruttamento e assoggettamento di coloro che vengono “salvati” dalle autorità libiche può essere utile per tracciare qualche tendenza consolidata in uno scenario in costante e violenta evoluzione.
L’impegno italiano ed europeo in strategie di esternalizzazione – anche tramite il supporto alle autorità libiche – ha un impatto sostanziale nell’impedire che le persone bloccate nel Paese raggiungano la costa settentrionale del Mediterraneo. Tali politiche hanno come immediata conseguenza il determinarsi di dinamiche di sistematica violenza e sfruttamento – ormai ampiamente documentate – che seguono l’intercettazione dei migranti nel Mediterraneo centrale.
Le operazioni di respingimento delegato – definite anche pullbacks, come riportato nel rapporto del 2018 delle Nazione Unite per evidenziarne l’estraneità con le procedure di salvataggio – risultano in aumento: solo lo scorso anno, in piena crisi pandemica, quasi 12.000 persone sono state intercettate nel tentativo di lasciare il Paese. Nei primi mesi del 2021 si è registrato il numero record di oltre 2.000 persone intercettate, 1.500 delle quali solo nell’ultima settimana. Queste azioni di “polizia” costituiscono la modalità più diffusa per far convergere i migranti in contesti di privazione della libertà, dove altissimo è il rischio di sottoposizione a tratta e grave sfruttamento.
I sopravvissuti alle operazioni di “salvataggio” vengono infatti sistematicamente smistati tra i sovraffollati centri di detenzione vicini alla costa, in condizioni disumane, oppure sottoposti a respingimenti in flagrante violazione del principio di non-refoulement.
La spartizione dei migranti
Cosa accade, dunque, una volta che i migranti vengono intercettati e riportati sul suolo libico?
Innanzitutto, è fondamentale considerare la moltitudine di attori che ruota attorno al sistema dei centri di detenzione. La Guardia Costiera Libica e l’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (GACS) – rispettivamente sotto il controllo del Ministero della Difesa e degli Interni – notificano quale sarà il luogo dello sbarco all’UNHCR, all’OIM, alla Croce Rossa e, in alcuni casi, ad alcune ONG.
Dal 2017 ad oggi, la maggior parte degli sbarchi è avvenuta sulla costa occidentale, in particolare nei pressi della raffineria di Zawiya (tra Sabrata e Tripoli), al porto di Tajoura (a est di Tripoli) e, ultimamente, al porto di al-Khoms (tra Tripoli e Misurata). Sotto tale supervisione internazionale, le persone vengono registrate e ricevono dei kit di primo soccorso, spesso ridotti ad una barretta energetica. Coloro che, a un rapido controllo medico, non presentano condizioni particolarmente gravi, vengono consegnati ai funzionari della Directorate for Combatting Illegal Migration (DCIM).
Da qui, il trasferimento verso i centri di detenzione nei meandri di una procedura “sistematicamente non-sistematica” che non di rado implica nei fatti che i migranti vengano picchiati e derubati o addirittura venduti. Basti pensare che il trasporto viene effettuato da compagnie di autobus private spesso direttamente coinvolte nel traffico. Normalmente il centro di destinazione viene identificato in base alla vicinanza con il luogo dello sbarco e ai posti disponibili, a meno che i centri già al completo non siano disposti a pagare per ricevere ulteriori migranti nella speranza di trarne profitto.
In questa fase, la profilazione di genere e di provenienza nazionale può giocare un ruolo importante: l’area di origine può infatti essere sinonimo di una presunta stabilità economica e l’aver viaggiato da una certa regione spesso riconduce automaticamente ad un determinato anello di traffico. D’altro canto, il semplice essere donne, ragazze o bambine apre la strada a forme organizzate di sfruttamento e violenza sessuale. A titolo di esempio, questa è la ragione per cui molte donne vengono da subito trasferite nei centri di detenzione di Abu Salim, a sud di Tripoli, e di Zintan.
Secondo l’OIM, i centri di detenzione ufficiali gestiti dalla DCIM ad oggi attivi sarebbero 24, a cui se ne aggiungono 31 che dovrebbero non essere più in funzione. Non è tuttavia raro che centri dichiarati chiusi vengano in realtà rimessi in funzione dalle milizie: è ad esempio il caso del centro gestito dalla Brigata al-Nasr a Zawiya – rimasto operativo nonostante l’ordine di chiusura emesso dalla DCIM – e del centro di Abu-Issa (sempre a Zawiya) chiuso nel 2018 a seguito delle accuse di abusi sessuali formulate dall’UNSMIL e riaperto qualche ora più tardi da un gruppo armato. Similmente, il centro di Al-Khoms – ad oggi la principale destinazione dei migranti intercettati dalla Guardia Costiera – è stato chiuso nell’agosto del 2019 dalle autorità di Tripoli, che hanno evidenziato come la sistematicità di torture, estorsioni e commercio di migranti registrata nel centro fosse imputabile alla milizia presente nell’area, e non al governo. Tuttavia, il centro è ancora aperto, così come il centro di Tajoura, a Tripoli, coinvolto in un analogo passaggio di testimone.
Oltre a quelli ufficiali, vi sono poi i centri informali, controllati da gruppi armati o milizie che – nella maggior parte dei casi ed in particolare a Tripoli – estendono la propria influenza anche su centri solo nominalmente sotto l’egida della DCIM. Qui, molto spesso, l’accesso da parte delle organizzazioni umanitarie internazionali è escluso. Ad essi si aggiunge un’incerta moltitudine di strutture e connection houses dalla natura più o meno provvisoria gestita direttamente da reti di trafficanti.
L’economia dei centri tra trasferimenti e collusioni
I confini tra i tre sistemi detentivi sono talmente permeabili che, alla prova dei fatti, risulta spesso impossibile individuare dove inizi il centro ufficiale e dove quello informale. Accade anche che, per alleggerire il sovraffollamento, i centri ufficiali vendano i migranti a centri non ufficiali, spesso collocati più lontano dalla costa, verso sud: è ad esempio il caso del già citato centro di al-Nasr a Zawiya, da cui i migranti vengono trasferiti verso i centri di Ubari e Sebha ad un costo variabile tra i 20 e i 200€, a seconda della stima sulla possibilità di profitto ottenibile considerando la regione di provenienza, il genere e le potenzialità lavorative.
Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ormai riconosciuto il legame strutturale che lega le reti di traffico, la Guardia Costiera Libica e la DCIM, al punto da condannare alcune delle figure più rilevanti della Guardia Costiera – tra cui il comandante presso Zawyia Abd al-Rahman al-Milad, meglio noto come al-Bija, arrestato lo scorso ottobre nei pressi di Tripoli – per il ruolo apicale ricoperto all’interno delle reti di trafficanti in Libia (vedi qui, qui e qui). Sono inoltre numerosi i rapporti che provano l’esistenza di tali collusioni e reti di finanziamento, fin dal momento dell’intercettazione in mare (vedi qui, qui e qui).
Il rischio di abuso sofferto dai migranti in territorio libico risulta ulteriormente amplificato dalla crescente severità con cui il Paese contrasta il traffico di persone, coinvolgendo attori statuali di concerto con una varietà di milizie locali. È stato da più parti sostenuto, infatti, come le recenti campagne anti-smuggling lanciate in territorio libico abbiano sì ridotto il flusso delle partenze via mare, ma altresì indotto i soggetti coinvolti nel traffico di migranti a modificare il loro modus operandi, adattandosi ad una logica di “scarsità” della domanda migratoria. Da ciò è derivata la crescente clandestinità e segretezza delle operazioni di reclutamento, trasporto e alloggio delle persone, nonché una forte crescita dei tempi medi di permanenza delle vittime nelle connection houses sparse sul territorio.
Un’altra fase fortemente critica per l’incolumità delle vittime del traffico coincide con i trasferimenti organizzati dalla DCIM. La condizione di conflitto armato che interessa anche le regioni dove sono ubicati i centri comporta delle reazioni caotiche da parte dei gestori degli stessi, i quali non possono in fase di trasferimento tenere traccia dei movimenti dei singoli individui da una struttura detentiva all’altra. Accade con una certa frequenza che le persone scompaiono, inghiottite in traffici secondari che diventano tanto più violenti quanto più i guadagni provenienti dallo smuggling diminuiscono ed i traffici tra centri di detenzione colmi di migranti diventano una facile occasione di arricchimento.
Lo scorso anno, la maggior parte dei migranti intercettati dalla Guardia Costiera è “misteriosamente” sparita dai registri tenuti dall’UNHCR e dall’OIM: talvolta trasferita direttamente in centri non ufficiali, talvolta venduta. Ed è proprio nel contesto di queste sparizioni che si verificano le violazioni più brutali dei diritti umani. “La Libia è l’inferno”, come riportano le interviste condotte da Amnesty International nei centri di detenzione. Lo sfruttamento lucrativo della persona del migrante è infatti divenuto la norma in molte realtà territoriali, e la dimensione del centro di detenzione il contesto che ne garantisce un’applicazione sistematica.
I centri di detenzione al crocevia dei meccanismi di traffico
Nell’ottica del traffico di esseri umani, la gestione dei centri rappresenta un chiaro modello di business volto a trarre quanto più profitto possibile. Vi è infatti evidenza che – sia nei centri ufficiali che in quelli informali – la detenzione costituisca la logica anticamera del successivo sfruttamento (lucrativo e non) della persona, attraverso il suo sequestro a fini di estorsione o la sua sottoposizione a lavoro forzato, schiavitù sessuale, o a vendita sul mercato neoschiavistico.
Se nella maggior parte dei centri ufficiali gli episodi di estorsione sono perlopiù riconducibili alla condotta di singoli membri del personale, nei centri non ufficiali l’estorsione è sistematica. Le persone vengono infatti torturate fino a quando i familiari della vittima non pagano quanto richiesto dai carcerieri: il pagamento del riscatto è attualmente la forma più comune di rilascio. Spesso, la detenzione in diversi centri e la vendita da un centro all’altro comporta che tale riscatto debba essere pagato più volte. Il lavoro forzato e la prostituzione forzata sono pressoché una costante soprattutto nei centri con maggior probabilità che i trafficanti e il personale facciano parte della stessa rete, come ad Al Nasr Zawyia.
Il rischio di subire tali violenze risulta particolarmente grave per le donne: in un recente studio, il 75% delle migranti intervistate ha indicato di essere stata sottoposta a forme di trafficking. In uno scenario abusivo evidentemente correlato a logiche di genere, emergono infatti impressionanti “picchi di esposizione” delle donne a specifiche modalità di abuso: in particolare, si ritiene che la violenza e lo sfruttamento sessuali interessino il 19% delle migranti donne. Tali violenze si svolgono principalmente nei campi per migranti e sono state segnalate prevalentemente nella zona costiera intorno a Tripoli e nelle aree prossime alle zone di disembarkment della Guardia Costiera libica (Zawyia, Sabratha, Tripoli, Al Khoms).
Accade inoltre che i migranti siano costretti a lavorare come personale di quegli stessi centri in cui sono detenuti, in cambio di condizioni di vita leggermente più sopportabili. Sono infine numerosi i casi accertati in cui i migranti detenuti – soprattutto coloro provenienti da paesi dell’area sub-Sahariana – sono venduti in veri e propri mercati degli schiavi.
Anche nei centri ufficiali, la situazione sanitaria è ormai tragicamente nota, così come la mancanza di alimenti adeguati. Le condizioni di detenzione sono crudeli, inumane e degradanti. Nei centri in cui più spesso i migranti vengono portati dopo gli sbarchi – come, ad esempio, il centro di Zintan – non c’è neppure lo spazio per tutti per sedersi a terra. Numerose testimonianze mostrano che – anche nei centri gestiti dalla DCIM – i migranti sono sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, tortura e lavoro forzato che, in un contesto di assoluta impunità, non di rado comportano gravi lesioni o perfino la morte.
Conclusioni
Tutto ciò considerato, deve osservarsi come le rotte migratorie verso la Libia – sempre più “strozzate” da politiche di contenimento delle migrazioni – facciano sì che gran parte dei migranti che giungono finalmente ad imbarcarsi dai porti della Tripolitania siano passati attraverso gravi episodi di violenza o sfruttamento: per coloro che giungono effettivamente in Europa, l’aver subito tali violenze implica il riconoscimento di specifiche forme di tutela e assistenza. L’aver “fatto la Libia” ha ormai assunto un significato tragicamente condiviso tra chi, dalla Libia, riesce ad uscirne.
L’uniformità delle esigenze di tutela menzionate ha portato vari studi sulle migrazioni centro-mediterranee a ricondurre sotto la categoria generale di trafficking non soltanto casi di sfruttamento della persona in attività lavorative, sessuali o criminali o nel traffico di organi, ma anche l’esposizione a rapimenti, sequestri e forme di violenza fisica e sessuale, e ciò in ragione del citato effetto assoggettante di tali metodi ai fini della mercificazione della persona umana.
Se, dunque, l’intercettazione via mare da parte della Guardia Costiera Libica costituisce una palese sottovalutazione delle esigenze di protezione di soggetti in larga parte vittime di terribili traumi, il successivo trasferimento dei migranti nei centri di detenzione formali ed informali rappresenta una ennesima accentuazione della loro posizione di vulnerabilità e rischio di assoggettamento. L’intero sistema di detenzione, nelle sue diverse ramificazioni, è in ampia parte finalizzato a trarre quanto più profitto economico possibile dallo sfruttamento delle persone detenute. La sistematicità con cui si riscontrano episodi di estorsione o di sfruttamento è una prova manifesta delle violazioni dei diritti più fondamentali che accompagnano le dinamiche di traffico di esseri umani in Libia.