di Alice Fill e Francesco Moresco
Nel quadro dei recenti sviluppi che hanno interessato la gestione dei processi migratori nel territorio libico, una rilevanza crescente è riservata allo sviluppo di metodi e tecnologie di identificazione, mappatura e risposta ai bisogni (needs assessment) delle popolazioni di migranti e sfollati interni (IDPs).
Tale funzione “tecnica” di assessment rappresenta un ambito tradizionale di competenza delle organizzazioni internazionali, che nel contesto libico viene esercitata con indubbia preminenza dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Componente essenziale di tale strumento di risposta ai bisogni umanitari delle popolazioni sfollate e/o in transito è il concetto di vulnerabilità, descritta come “la capacità limitata di evitare, resistere, far fronte o riprendersi da un danno”. I migranti considerati vulnerabili, secondo l’operativizzazione del concetto proposta dall’Handbook curato dall’OIM sul tema, sono coloro che non sono in grado di godere in modo efficace dei propri diritti umani, che sono maggiormente esposti al rischio di violazioni e abusi e che, di conseguenza, hanno il diritto di invocare una forma rafforzata di diligenza nei confronti di chi ha degli obblighi positivi di tutela nei loro confronti.
Dall’osservazione di una specifica forma di vulnerabilità, l’OIM fa derivare l’imperativo della costruzione di una risposta umanitaria su misura rispetto al particolare bisogno individuato. La tassonomia delle vulnerabilità adottate dall’OIM include, in particolare, la misura dell’accesso di differenti individui o gruppi di persone a beni e servizi essenziali per la sopravvivenza, quali cibo, acqua pulita, cure mediche, ecc. Altre forme di assessment tendono invece a concentrarsi sullo studio di rischi di matrice “umana”: tra questi, spicca la misurazione del rischio individuale e collettivo di esposizione a violenza, abuso e grave sfruttamento, che rappresenta l’indicatore centrale del livello di sicurezza interpersonale delle popolazioni sottoposte all’assessment.
In questo breve commento, intendiamo condividere una serie di spunti critici riguardanti la funzione di needs assessment, concentrandoci in particolare sulle attività di misurazione e valutazione di tali bisogni, nonché sulla risposta alla vulnerabilità che l’OIM propone nel contesto libico ad una categoria considerata particolarmente a rischio: le vittime di tratta. In quest’ottica, è essenziale ricordare brevemente qual è la mission dell’OIM nel governo delle migrazioni in Libia, le sue modalità operative a livello associativo e la politica adottata dall’organizzazione in materia di vittime di tratta.
Come accennato, l’OIM è attualmente la più grande organizzazione internazionale attiva nella gestione dei fenomeni migratori, nonché l’unica competente esclusivamente nella governance delle migrazioni. Nonostante tale primato, l’OIM risulta ad oggi priva di un chiaro mandato di protezione dei diritti umani nei contesti in cui opera: l’organizzazione è infatti inserita nel sistema delle Nazioni Unite come “related organisation”. Si tratta di una definizione giuridica del rapporto con l’ONU fortemente deformalizzata, che di fatto non impone all’organizzazione alcun obbligo di rendicontazione delle proprie attività di fronte agli organi delle Nazioni Unite. Nella pratica, la mancanza di un “protection mandate” fa sì che l’OIM, pur manifestando in gran parte dei suoi documenti un formale impegno al rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, non possa essere ritenuta funzionalmente investita di obblighi di promozione degli standard ONU in materia di human rights nei territori dove opera, né vincolata al perseguimento della tutela di tali interessi in via esclusiva. Al contrario, l’OIM ha recentemente ribadito la sua natura di organizzazione a-politica e “non normativa”, una formula inusuale in un sistema human-rights-based come quello delle Nazioni Unite, che mira dunque a qualificarla come “ente tecnico” nella gestione dei flussi migratori in situazioni “di crisi”. Nella pratica, diversi osservatori hanno sottolineato la profonda dipendenza dell’OIM dal supporto finanziario dei suoi Stati membri: ben il 97% del suo budget annuale risulta infatti derivante dall’avvio di progetti specifici finanziati da singoli Stati o gruppi di Paesi che perseguono specifici interessi in materia di gestione delle frontiere e di controllo delle rotte migratorie. Non a caso, l’organizzazione è stata frequentemente coinvolta nell’esercizio di funzioni di contenimento dei flussi (come ad esempio la detenzione offshore dei migranti diretti in Australia) ed è ad oggi primariamente coinvolta nella gestione delle operazioni di rimpatrio delle persone migranti, attraverso l’attivazione di programmi di rimpatrio volontario assistito (AVR) e umanitario (VHR).
La presenza di questa evidente dipendenza dal supporto statuale, tuttavia, non implica necessariamente la totale subordinazione delle attività dell’OIM ad un controllo governativo. Viceversa, è stato osservato che l’organizzazione mantiene una notevole autonomia nelle modalità di implementazione dei progetti attivati, dedicando notevoli sforzi alla cura della sua immagine pubblica in quanto detentrice di un’expertise efficiente ed affidabile nella gestione di situazioni di crisi migratoria, nonché di attore chiave nella risposta al rischio umanitario.
Proprio l’intersezione tra assistenza materiale, controllo dei flussi e competenza tecnico-logistica è al centro dell’esercizio di ciò che l’OIM definisce la sua funzione di migration management: attraverso una massiccia presenza sul campo, l’OIM garantisce una costante mappatura dei processi di migrazione e sfollamento che interessano un determinato territorio, si fa carico della fornitura di assistenza immediata ai bisogni elementari delle popolazioni coinvolte e favorisce una rappresentazione mediatica del contesto in cui opera come “zona di crisi”, inadatta alla permanenza e al transito di popolazioni. Il confine diventa così una zona la cui funzione di esclusione geografica passa in secondo piano rispetto alla sua “oggettiva”e calcolabile pericolosità: il governo della migrazione viene in questo modo depoliticizzato e ricondotto nella sfera “apolitica” della gestione tecnica del rischio.
Questa attenzione primaria ai pericoli del processo migratorio e delle zone di transito ha caratterizzato per lungo tempo l’approccio dell’OIM al contrasto al fenomeno della tratta di esseri umani e al supporto delle sue vittime. Come notato in varie ricerche sul campo, il coinvolgimento dell’organizzazione in progetti anti-tratta in Est Europa, nel Sud-Est Asiatico e in Sud America è in buona parte ruotato attorno all’attivazione di campagne informative dirette specialmente alla popolazione femminile e volte a disincentivare aspirazioni o progetti migratori. Tali campagne hanno contribuito largamente ad una più generale costruzione giuridica e mediatica della vulnerabilità della persona migrante vittima di tratta che presume una forma di manipolazione della volontà della donna o del minore operata attraverso l’allettante quanto ingannevole offerta di un miglioramento delle condizioni di vita attraverso la migrazione.
Pur a fronte di questi precedenti, non si può ignorare come l’approccio dell’OIM al fenomeno della tratta e al concetto di vulnerabilità sia stato profondamente rivisto negli ultimi anni, in linea con le direttive sovranazionali. L’esame dei più recenti documenti in materia mostra come l’organizzazione si sia progressivamente “ri-legittimata” nell’opinione pubblica internazionale, presentandosi come un attore super partes nella valutazione di situazioni di rischio migratorio e particolarmente qualificato per la costruzione ed operazionalizzazione di sistemi di valutazione dei bisogni. Per quanto riguarda la tratta, in numerose pubblicazioni si legge che a partire dagli anni ’90 l’OIM ha assistito oltre 10.000 vittime di tratta, provenienti da 138 diversi paesi. In forza di tale esperienza, l’organizzazione dichiara di aver ottenuto una posizione di accesso privilegiata alle vittime di tratta e di aver sviluppato una specifica expertise nella loro identificazione e protezione. Anche il concetto di vulnerabilità in relazione alle persone migranti utilizzato dall’OIM è stato sottoposto ad una forte revisione: in particolare, l’organizzazione ha recentemente mostrato di abbracciare una nozione di vulnerabilità individualizzata e situazionale: conseguentemente, il migrante non è più considerato personalmente e individualmente vulnerabile in quanto portatore di caratteristiche che lo espongono all’offesa o in quanto appartenente a “gruppi minacciati”; al contrario, in conformità con la terminologia inaugurata dal Global Compact on Migration, si parla di migranti “in una situazione vulnerabile”, la cui esposizione a minacce fisiche, psicologiche o relazionali è fortemente dipendente dal contesto in cui essi sono inseriti e dalla presenza di condizioni istituzionali o comunitarie idonee a tutelarne gli interessi fondamentali.
Ad oggi, l’OIM ha espanso i propri programmi ai “migranti vulnerabili”, ai “migranti in situazioni di vulnerabilità” e ai “migranti vulnerabili alla violenza, allo sfruttamento e agli abusi”. Nel proporsi come l’organizzazione maggiormente in grado di gestire migranti ritenuti vulnerabili, l’OIM ha descritto con un modello pluridimensionale i fattori che determinano la vulnerabilità della persona migrante (Determinants of Migrant Vulnerability model – DoMV). Il modello DoMV propone l’articolazione di fattori di rischio (che esacerbano situazioni di vulnerabilità) e di protezione (che permettono di evitare o far fronte in modo resiliente a condizioni di vulnerabilità) su quattro diversi piani: individuale, familiare, comunitario e strutturale. Ad esempio, a livello individuale, fare parte di un particolare gruppo etnico può rappresentare a seconda delle circostanze un fattore di protezione o di rischio. A livello strutturale, invece, i fattori che vengono presi in considerazione sono ad esempio il rispetto dei diritti umani in una determinata regione, la presenza di una buona o cattiva governance locale, e così via.
Per ciascuno di questi livelli, nel condurre la propria valutazione della vulnerabilità, l’OIM raccoglie in modo diretto i dati necessari attraverso dei sondaggi denominati “Mobility Tracking (MTS) and Flow Monitoring Surveys (FMS)”. Come avviene in altri contesti particolarmente critici, anche in Libia tali surveys vengono integrate nelle interviste che l’OIM conduce con i migranti e che affrontano temi legati all’educazione, alla sicurezza alimentare, alle condizioni di vita, alle rimesse, alla salute e al settore WASH. Nel contesto libico, tali settori di indagine sono stati inclusi nelle FMS solo nel 2019 e sono stati conseguentemente integrati nei criteri per identificare situazioni di vulnerabilità. Tuttavia, le interviste di monitoraggio raccolte nel report annuale dell’OIM sono state condotte in luoghi di transito come stazioni dei bus e luoghi di aggregazione, fuori dai centri di detenzione. Tale decisione comporta un bias che riteniamo non trascurabile sulla qualità e rappresentatività dei dati raccolti, che presentano un quadro della situazione dei migranti in Libia molto meno drammatico di quello reale. Si consideri, inoltre, che ben il 96% delle interviste sono state condotte con migranti uomini, lasciando quindi ampiamente sottorappresentate possibili vittime di tratta o di altre forme di S/GBV (sexual and/or gender based violence).
Al di là delle FMS, una delle ragioni per cui l’OIM raccoglie informazioni volte a identificare i migranti vulnerabili in Libia è riuscire a renderli i principali beneficiari del programma di rimpatrio volontario umanitario e reintegrazione (voluntary humanitarian return and reintegration, VHR) che l’organizzazione promuove nel paese dal 2017. Il programma di VHR si propone di affiancare il programma di resettlement in paesi terzi dei rifugiati presenti in Libia, iniziativa supportata dall’UNHCR e che ad oggi riguarda tuttavia un numero estremamente esiguo di persone. Basti pensare che nel 2021 solo 212 rifugiati sono stati trasferiti in Svezia, Norvegia e Canada dalla Libia. I VHR vengono presentati come contraltare a tale programma, da attivare nel momento in cui, come in Libia, “i servizi di protezione non possono più essere forniti nei paesi ospitanti”. Inoltre, negli ultimi anni, l’UNHCR ha promosso un sistema di evacuazione dalla Libia noto come Emergency Transit Mechanism (ETM). Dal 2017 alla fine del 2021, attraverso questo sistema 3.710 rifugiati o richiedenti asilo sono stati evacuati in Niger mentre, tra il 2019 e la fine dello scorso anno, altri 648 sono stati evacuati verso il Ruanda. Ciò a fronte di una popolazione di rifugiati e richiedenti asilo ufficialmente registrati dall’UNHCR in Libia (dunque una stima per difetto) che a inizio gennaio 2022 si assestava a 43.113 persone.
A causa dei rallentamenti imposti dalle misure di contenimento della pandemia di Covid-19, la lista di attesa per i rimpatri dalla Libia stilata dall’OIM è oggi particolarmente lunga – e la ripresa dei voli di rimpatrio nell’ottobre 2021 è stata presentata dall’organizzazione come un importante successo. Nel 2019, le stime dell’OIM mostrano che 9.798 migranti sono stati supportati nel fare ritorno in modo volontario in 34 diversi paesi di origine, principalmente Nigeria, Niger, Mali e Sudan. Di questi, 7.422 sono uomini e 2.376 donne. Tale intervento, si legge nel report annuale del 2020 sui VHR dalla Libia, rappresenta un importante valore aggiunto al lavoro dell’OIM nel Paese, non soltanto in quanto esso costituisce un’“agile” soluzione di rientro a casa per i migranti bloccati in Libia, ma anche per la sua innovativa funzione di stabilizzazione delle comunità più fragili e di mitigazione delle sofferenze dei migranti detenuti e particolarmente vulnerabili. Il programma viene dunque presentato alla luce di un approccio rights-based, volto a facilitare l’accesso a soluzioni sicure, dignitose e durevoli allo sfollamento, tentando dunque di inserire una dimensione di protection all’interno del mandato di gestione delle migrazioni proprio dell’organizzazione.
Il programma si compone di diverse parti, tra cui servizi di divulgazione organizzati nei centri di detenzione e nelle aree urbane per far conoscere ai migranti l’opportunità offerta dai VHR, una hotline informativa e – elemento di particolare interesse per la nostra analisi – la possibilità di avere accesso ad una consulenza individuale che preveda uno screening della vulnerabilità della persona interessata. Vengono infatti organizzate regolarmente visite sul campo volte a identificare i migranti interessati a tornare volontariamente nei paesi d’origine e – una volta comunicato l’interesse di aderire al programma di VHR – viene effettuata la registrazione e fissato un colloquio. Tra i servizi forniti, si aggiunge l’assistenza nell’ottenere documenti di viaggio, una valutazione dei servizi consolari disponibili, la disposizione di controlli sanitari prima della partenza, nonchè un programma di assistenza ad hoc volto a garantire un rientro dignitoso e la reintegrazione nel Paese di origine, al fine di far fronte ai bisogni psicologici, economici e sociali delle persone interessate.
Dal 2019, inoltre, l’OIM riporta di aver introdotto specifiche misure di protezione nell’ambito dei VHR attraverso un più stretto coordinamento e l’introduzione di meccanismi di referral sia con agenzie delle Nazioni Unite come l’UNHCR che con i Paesi di origine, al fine di garantire un’assistenza specifica ai migranti vulnerabili ed in particolare alle vittime di tratta.
Proprio le vittime di tratta sono oggetto di particolare attenzione nelle interviste condotte dall’OIM e volte a verificare i principali criteri di vulnerabilità in linea con i DoMV. Se risultano particolarmente vulnerabili, infatti, non solo i migranti ottengono l’accesso ad un ulteriore supporto in termini di counseling, ma il loro rimpatrio viene reso prioritario rispetto ad altri. Oltre alle vittime di tratta, l’OIM tende a dare la priorità nell’accesso ai VHR a minori, donne incinte, persone con disabilità e anziani. Inoltre, l’organizzazione considera come criteri di vulnerabilità il fatto che i migranti siano in uno stato di detenzione o abbiano subito torture, oppure che possano essere ritenuti a rischio in ragione della loro nazionalità, credo religioso, affiliazione politica, orientamento sessuale o etnia.
Considerata l’autorità tecnica ricoperta dall’OIM nel contesto del vulnerability policing, riteniamo interessante proporre un breve confronto tra il quadro di garanzie come definito dalle linee guida in tema di assistenza umanitaria sviluppate nei documenti dell’organizzazione e la realtà operativa che emerge da alcuni recenti studi sulle procedure VHR in Libia.
Nel contesto dell’assistenza ai migranti in detenzione, la funzione di screening della vulnerabilità viene svolta in modo differenziato tanto dall’OIM quanto dall’UNHCR, che opera nei centri di detenzione nell’implementazione del suo Emergency Transit Mechanism (ETM). La qualificazione del migrante come vulnerabile, insomma, gioca un ruolo determinante, da un lato, per la possibilità della persona di avere accesso alla protezione internazionale e, dall’altro, per il suo accesso ad un trattamento individualizzato che ne favorisca un rimpatrio dignitoso.
Entrambe queste attività presentano, tuttavia, evidenti criticità: nel caso di UNHCR, lo screening della vulnerabilità viene generalmente utilizzato come mezzo di preordinazione nella selezione dei richiedenti asilo che possono aspirare al resettlement al di fuori del territorio libico, finalizzato alla presentazione della domanda di asilo. In queste specifiche operazioni, inoltre, la delimitazione dell’assistenza ai soli migranti “particolarmente vulnerabili” si accompagna ad una pre-selezione delle nazionalità ammesse al programma di resettlement: attualmente, le autorità libiche riconoscono soltanto nove Paesi africani come potenziali luoghi di origine dei rifugiati. Vulnerabilità e nazionalità vengono, così, costantemente adoperate sinergicamente da UNHCR come primissimi criteri di selezione degli individui “meritevoli di protezione” all’interno dei centri di detenzione.
Un recente studio sul campo evidenzia come la suddetta “selezione attraverso la vulnerabilità”, resa già di per sé necessaria dall’insufficienza di fondi per garantire un adeguato trattamento a tutti i richiedenti asilo, venga effettuata in modo del tutto arbitrario dagli operatori di UNHCR. È stato riportato come spesso le interviste con i richiedenti avvengano in condizioni tali da rendere impossibile una corretta valutazione dei bisogni, con la frequente presenza delle guardie dei centri, situazione in cui gli operatori di UNHCR si vedono spesso costretti a “inventare” profili di vulnerabilità inesistenti. Se la sostanza dell’accertamento risulta qui evidentemente distorsiva, nel caso dei VHR dell’OIM le modalità stesse di valutazione del bisogno rendono il processo assistenziale intrinsecamente viziato: come sottolineato in diverse interviste con operatori OIM, nei colloqui con i detenuti la opportunità del rimpatrio viene generalmente presentata come unica alternativa alla detenzione disponibile per il migrante. Lo screening della vulnerabilità e la correlativa valutazione dei bisogni assistenziali del migrante viene effettuata soltanto a seguito dell’accettazione dell’offerta di rimpatrio VHR. Ad esempio, vari operatori OIM hanno espresso lamentele per il divieto loro imposto di distribuire biancheria pulita ai detenuti che non hanno manifestato parere favorevole al rimpatrio. Tali modalità di risposta ai bisogni risultano evidentemente contrarie alle linee guida della stessa OIM, che nel suo manuale sulla protezione ed assistenza per i migranti vulnerabili alla violenza, sfruttamento ed abuso qualifica il ricorso alla condizionalità come un comportamento contrario ad un approccio rights-based all’assistenza umanitaria.
Se entrambe le attività di screening e risposta al bisogno risultano profondamente censurabili alla luce degli impegni umanitari e di protezione delle due organizzazioni, altrettanto sconcertante appare la mancanza di un formale collegamento tra l’una e l’altra forma di vulnerability assessment: a fronte, infatti, della formale previsione di meccanismi di referral attivabili da OIM in presenza di contatti con i richiedenti protezione internazionale, nessuna informazione risulta disponibile riguardo ai presupposti sostanziali per l’attivazione del meccanismo stesso. Le due procedure di screening tendono, così, ad essere applicate in modo del tutto distinto e scoordinato e il numero di referral effettuati risulta incredibilmente basso a fronte del numero di rimpatri effettuati.
Questo evidente deficit di protezione è particolarmente nocivo per la situazione delle vittime di tratta identificate durante le procedure di VHR: come recentemente osservato, nessun percorso specifico di accesso alla protezione internazionale viene previsto nell’ambito delle attività di assistenza OIM all’interno dei centri di detenzione. Esse vengono generalmente escluse dalle procedure di referral, violando l’altro fondamentale aspetto del human rights approach di OIM all’assistenza umanitaria, vale a dire la messa del migrante in condizione di pretendere i diritti derivanti dalla sua particolare condizione.
Sotto un altro punto di visto, l’inclusione “monodirezionale” della vittima di tratta in un percorso di rimpatrio risulta evidentemente contraria all’impegno centrale di OIM nel rispetto dell’imperativo di non arrecare offesa al migrante attraverso le sue attività di assistenza umanitaria (do no harm). L’organizzazione nel corso del 2020 ha rimpatriato 86 vittime di tratta identificate nel contesto di operazioni di AVRR e VHR, gran parte delle quali sono state rimpatriate in Nigeria, Paese in cui si verifica frequentemente il fenomeno del re-trafficking. La limitata valutazione delle esigenze di protezione internazionale della vittima viene così a rappresentare un meccanismo di perpetuazione – invece che di salvaguardia – della vulnerabilità contestuale del soggetto migrante. Questa strategia istituzionale di “strumentalizzazione del bisogno” contribuisce a connotare come forzata la decisione del migrante, privo di alternative esistenziali, di accedere al VHR, come argomentato nel recente ricorso di ASGI relativo proprio al rimpatrio umanitario di due cittadine nigeriane vittime di tratta.
In conclusione, vogliamo ribadire come il ricorso al lessico della vulnerabilità da parte dell’IOM non rappresenti un’operazione casuale: la narrativa della vulnerabilità contribuisce a legittimare l’associazione su un piano tecnico-umanitario e a garantire una efficace giustificazione morale al supporto dei suoi Stati membri. Quanto osservato in relazione alle operazioni VHR in Libia mostra però come la vulnerabilità rappresenti una categoria da maneggiare con cautela, che può essere plasmata diversamente a seconda del suo contesto di applicazione. Nel caso dell’OIM, abbiamo osservato come la categoria venga ormai utilizzata dall’organizzazione con una evidentemente “schizofrenia”: veicolo di empowerment e protezione individualizzata dei diritti della persona sulla carta, strumento di esclusione e di negazione dell’agency del soggetto migrante nella prassi.
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