di Sebastian Carlotti
Circola in questi giorni la notizia di una proposta da parte della Commissione europea alle autorità del Senegal per l’attivazione, per la prima volta nella storia, di un’operazione con il dispiegamento di forze Frontex sul territorio sovrano di uno stato africano. Schierando le proprie forze lungo i posti di confine senegalesi, l’Europa ambisce a intervenire direttamente sugli itinerari percorsi dai migranti con l’obiettivo di fermarli a ‘casa loro’ anche se, formalmente, l’intento dichiarato è quello di fermare il traffico umano che attraversa questi confini. Il piano, non ancora approvato da parte del Senegal, prevederebbe l’intervento attivo per il pattugliamento della cosiddetta rotta atlantica, dei posti di confine con la Mauritania e degli altri itinerari verso l’Algeria e la Libia. In cambio di questa cooperazione, secondo le indiscrezioni, vi sarebbe l’offerta di nuovi fondi per contrastare gli effetti della pandemia sull’economia senegalese e la creazione di nuove opportunità di migrazione legale. Questo modello di accordo, che Frontex intenderebbe estendere nel futuro anche alla Mauritania, introdurrebbe un nuovo livello nel processo di esternalizzazione dei confini europei nell’area.
L’esternalizzazione europea tra Schengen e i primi anni Duemila
Vista la molteplicità di forme che nel tempo ha assunto l’esternalizzazione dei confini europei, è utile considerare alcuni dei passaggi principali alla base del sistema di controllo che conosciamo oggi. Con l’approvazione negli anni Ottanta degli accordi Schengen sulla libera circolazione in Europa, per favorire l’apertura dei confini interni tra i paesi membri UE, venne posta come necessità la chiusura dei confini esterni, con riferimento particolare al caso italiano e a quello spagnolo. Proprio quest’ultimo, con le proprie enclave di Ceuta e Melilla sul continente africano, era ritenuta da molti come il ‘fianco esposto’ dell’Europa. Fino a quel momento, infatti, il confine della Spagna con il Marocco era paragonabile a quello con i suoi vicini europei. Ma la chiusura dei confini esterni passava anche da un severo irrigidimento in corso da parte di alcuni paesi membri, tra cui la Francia, con le ex colonie che ancora avevano un regime di mobilità relativamente favorevole.
Nel frattempo, nel 1997 il trattato di Amsterdam stabilì che gli accordi di Schengen diventassero parte integrante dell’acquis comunitario, ponendo la base per la chiusura e il rafforzamento generale dei confini europei con il proprio vicinato. Sempre ad Amsterdam, i capi di governo europei approvano per la prima volta una competenza comune in materia di asilo e politica migratoria. Seppure limitata, per dare un contenuto e soprattutto una direzione strategica a questa nuova competenza, nel 1999 vi fu un nuovo incontro in occasione del Consiglio Europeo di Tampere. In questa sede le autorità europee definirono una strategia finalizzata a dispiegarsi su un doppio binario. Da un lato, il Consiglio aveva sottolineato l’importanza di quelle che venivano ritenute le cause alla base della decisione delle persone migrare nei rispettivi paesi di provenienza, come la povertà e la disoccupazione. Dall’altro lato, invece, si poneva l’accento sul coinvolgimento diretto dei paesi terzi e della cooperazione attiva di questi nel controllo dei propri confini e della propria emigrazione. Questa strategia, tuttavia, per diversi anni rimase solo sulla carta.
Nel corso degli anni successivi a Tampere, il dibattito in Europa ruotava principalmente sul ruolo degli aiuti allo sviluppo forniti ai paesi terzi. In particolare, circolava l’idea di vincolare l’erogazione di questi fondi alla capacità dei paesi terzi di controllare la propria emigrazione verso l’Europa. Alcuni stati, tra cui la Spagna e il Regno Unito, nel 2002 proposero al consiglio europeo di Siviglia di formalizzare la possibilità di bloccare gli aiuti a quei paesi che non applicassero in modo soddisfacente gli accordi presi in materia dei controlli di confine. Questa posizione non passò a Siviglia, ma allo stesso tempo le autorità europee approvarono l’opzione di applicare sanzioni economiche pur mantenendo inalterata l’erogazione degli aiuti.
Il rafforzamento dei confini e prime prove di esternalizzazione, il ruolo della Spagna e dell’Europa
Nel frattempo, la conseguenza più visibile proveniva dagli accordi di Schengen con la costruzione della doppia fila di recinzioni a Ceuta e Melilla e che nel tempo sarebbe diventato un vero e proprio simbolo del nuovo approccio securitario dell’Europa. Oltre alle recinzioni fisiche, per monitorare il Mediterraneo e lo stretto di Gibilterra, nel 2003 la Spagna mise in funzione il SIVE (Sistema Integrado de Vigilancia Exterior). Co-finanziato da parte dell’UE, il SIVE è il primo sistema di controllo combinato radar per la sorveglianza remota dei confini sul Mediterraneo rendendo il viaggio dal Marocco notevolmente più difficile ed incerto.
Ma sarà il 2005 a rappresentare un vero momento di svolta per la politica securitaria europea. In quel periodo si susseguono diversi tentativi di superare le recinzioni delle enclave spagnole in Marocco da parte di gruppi più o meno numerosi. Puntando infatti sui grandi numeri per migliorare le proprie possibilità, durante uno dei tentativi più imponenti, migliaia di migranti cercarono di assaltare e superare le recinzioni di Ceuta e Melilla. Tuttavia, le forze di polizia decisero di aprire il fuoco su queste persone, uccidendone almeno 14. Ad oggi, non è mai stato chiarito del tutto se a sparare furono le forze spagnole o quelle marocchine. Quello che invece è certo, è che questo massacro, diventato noto come Asalto Masivo, rappresenta un momento di svolta per la politica europea e dei suoi sforzi di esternalizzare i confini. Cionondimeno, nell’immediato la risposta all’Asalto Masivo da parte delle autorità marocchine attuarono una violenta repressione smantellando i campi sorti vicini alle exclave ed espellendo i suoi abitanti verso il deserto o i rispettivi paesi di origine.
Sull’onda della reazione emotiva in Europa causata dall’Asalto Masivo e dalla repressione che lo ha seguito, i capi di governo europei decisero di riunirsi per definire una risposta forte a questi eventi. Riprendendo il filo rimasto sospeso da Tampere, pochi mesi dopo l’Asalto Masivo, l’UE decise di varare il Global Approach to Migration (GAM) per riprendere quella visione ‘globale’ in cui coinvolgere i paesi terzi nello sforzo del controllo della mobilità internazionale. Per la prima volta l’UE inaugurò quindi una strategia comune per la politica migratoria che andasse a sostituire l’azione sino a quel momento indipendente dei propri stati membri e delle loro relazioni bilaterali. L’idea a livello comunitario, perciò, era di creare un sistema di accordi multilaterali con i paesi di origine e di transito delle migrazioni che fosse flessibile e che si adattasse rapidamente ai cambiamenti nelle rotte dei migranti in modo da prevenirne le partenze o comunque l’arrivo verso il territorio europeo. Da un lato, infatti, l’imperativo era quello di costruire una politica securitaria finalizzata ad un’azione deterrente contro i migranti. Non è un caso che durante lo stesso anno, nel 2005, nasce formalmente anche l’Agenzia di guardia costiera e di frontiera nota in generale come Frontex. Dall’altro lato, il GAM puntava anche su un approccio cosiddetto ‘preventivo’ che, favorendo lo sviluppo economico di questi paesi, riducesse quelle che venivano confusamente immaginate come le cause di questi spostamenti, le cosiddette ‘root causes’ come povertà e un’economia poco sviluppata.
Per attuare questa strategia, l’UE puntava a stipulare una nuova tipologia di accordi, chiamati Mobility Partnerships, con quei paesi di origine e di transito dei movimenti verso il proprio territorio. In particolare, l’Africa occidentale venne individuata come area di priorità strategica per la negoziazione di questi accordi. Queste partnership includevano prima di tutto l’aspetto securitario tanto desiderato dai paesi europei. In questo senso, in fase di negoziato delle partnership si richiedeva alle controparti di accettare una serie di accordi di riammissione e di rafforzare significativamente la capacità di controllo in uscita dei propri confini. Da parte sua l’Europa si sarebbe impegnata per l’attuazione di queste misure a fornire le risorse necessarie e l’addestramento delle forze di polizia. Questo inevitabile sbilanciamento verso gli aspetti securitari e, in particolare, senza tenere conto degli interessi domestici dei paesi di quell’area, portò rapidamente i negoziati delle Mobility Partnerships ad arenarsi a tempo indeterminato. Fece eccezione solo l’accordo raggiunto nel 2008 con il piccolo stato insulare di Capo Verde. Prevedibilmente, essendo i paesi dell’area fortemente dipendenti dalla necessità di favorire il libero spostamento nella regione per motivi di lavoro stagionale e di manodopera qualificata, era altamente controproducente ogni intervento che intervenisse su questi spostamenti rendendoli più difficili.
Il ruolo del Marocco e la rotta atlantica
Tuttavia, mentre in Europa stava riprendendo la discussione su come coinvolgere i paesi terzi nel tentativo di fermare i migranti, il Marocco agì con estrema violenza contro la popolazione migrante presente sul suo territorio. A seguito dei tentativi di superare le recinzioni delle exclave spagnole, il Marocco iniziò a svolgere raid indiscriminati nei quartieri a maggioranza immigrata delle principali città del paese. Associazioni e ONG internazionali riportarono arresti arbitrari, spesso basati sul solo colore della pelle, a prescindere del loro status legale sul territorio. Detenuti, spogliati e derubati dei propri averi dalle stesse forze di polizia, si registrarono numerose violenze fisiche e abusi prima che i/le migranti venissero abbandonati in mezzo al deserto sul confine con l’Algeria o nel sud del paese. Il Marocco lanciava un chiaro messaggio di affidabilità all’Europa come partner in materia di controllo delle migrazioni, un meccanismo che si ripeterà anche in altri paesi e al quale le autorità europee hanno silenziosamente assistito.
In seguito alla nuova ondata repressiva in Marocco, la rotta verso le coste mediterranee si rese molto rischiosa per chi sperava di raggiungere l’Europa. Come conseguenza, sempre più migranti iniziarono a partire dal territorio Mauritano con le prime Pirogues e Cayucos, piccole imbarcazioni da pesca utilizzate per l’attraversamento verso le isole Canarie in quanto territorio Spagnolo nell’atlantico. Bisogna tenere conto che in precedenza alcuni migranti partivano dalle coste del Sahara Occidentale. Tuttavia, in seguito al pugno duro attuato dal Marocco, le partenze si spostarono sempre più a sud verso le città di Nouadhibou e Nouakchott in Mauritania, comportando un notevole e soprattutto pericoloso allungamento del tragitto da percorrere.
Operazione HERA: le Canarie e il pattugliamento delle coste africane di Spagna e Frontex
Per fermare quindi gli arrivi presso le isole Canarie, nel 2005 la Spagna cominciò a pattugliare massicciamente il tratto di mare che le divide dal continente africano. Da quel momento lungo le coste atlantiche dell’Africa inizia a dispiegarsi quello che sarà un nuovo sistema di controllo difensivo e soprattutto letale per i migranti. Con il successivo coinvolgimento di Frontex, nel 2006 il pattugliamento della costa, prima lungo il tratto del Marocco, del Sahara Occidentale e poi della Mauritania, vennero affidate all’operazione HERA coordinata dal comando Spagnolo e studiata per intercettare gli arrivi sul territorio della Spagna. L’operazione che era basata sugli accordi bilaterali siglati dalla Spagna con la Mauritania, dopo un nuovo accordo nel 2007 si estende per coinvolgere anche le acque territoriali del Senegal con le operazioni Frontex HERA II e poi III.Il pattugliamento delle acque territoriali di questi paesi si rivelerà come elemento cruciale della strategia europea ed oggetto di una forte critica da parte delle organizzazioni umanitarie. Obbligati dal diritto internazionale a condurre le imbarcazioni intercettate verso il porto sicuro più vicino, con il pattugliamento svolto direttamente nelle acque territoriali permise a Frontex di condurre le imbarcazioni presso i porti sul territorio africano. In questo modo, l’Europa non solo riusciva ad, discutibilmente, violare il divieto di non respingimento e allo stesso tempo di impedire a potenziali richiedenti asilo di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato sul territorio europeo.
La Mauritania, laboratorio per l’esternalizzazione dei confini
Per reagire allo spostamento delle partenze verso sud, infatti, le autorità spagnole si attivarono immediatamente per negoziare un primo accordo bilaterale con la Mauritania per il pattugliamento congiunto delle coste Mauritane. La Spagna si trovò di fronte una situazione politicamente molto favorevole in quanto la Mauritania si stava trovando in una condizione di isolamento internazionale a seguito di due colpi di stato avvenuto nel 2005 e nel 2008. Il paese, storicamente lacerato dalle divisione etniche interne e dal persistere della schiavitù, era nel pieno dell’instabilità politica la cui condizione era aggravata dal suo isolamento internazionale. Per uscire da questa situazione, la classe politica mauritana era bisognosa di ristabilire normali relazioni diplomatiche, in particolar modo con l’UE, ed era quindi incline ad accettare ogni forma di richiesta della Spagna prima e dell’Europa poi.
Come abbiamo visto, la Mauritania ricoprì un ruolo speciale nello sviluppo delle politiche di esternalizzazione europee. Molto presto il paese divenne una vera e propria zona cuscinetto per contrastare le migrazioni verso l’Europa ed un laboratorio per sperimentare future cooperazioni con i paesi terzi. Nel luglio 2003, Spagna e Mauritania firmarono un Accordo sull’Immigrazione in base al quale la Mauritania accetta di riammettere da parte della Spagna non solo cittadini mauritani ma anche migranti provenienti da paesi terzi. Secondo l’art. IX dell’accordo, la Mauritania acconsente ad ammettere cittadini di paesi terzi che non adempiono con i requisiti per l’ingresso che si “presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare in Spagna.
Ancora nel 2006 Spagna e Mauritania siglano due accordi per il dispiegamento di 250 unità di Guardia Civil sul territorio sovrano mauritano. Questo dispiegamento di forze di polizia straniere in Mauritania aveva lo scopo di supportare l’azione della polizia locale nelle città di Nouadhibou e Nouakchott. In aggiunta, la Spagna cominciò a rifornire la polizia mauritana di equipaggiamenti e strumentazioni di controllo, tra cui elicotteri e visori notturni. Ma l’emblema di questa nuova collaborazione è stata la costruzione di un nuovo centro di detenzione, divenuto tristemente famoso come ‘Guantanamito’, in riferimento alle violenze e all’assenza di diritto note dell’omonimo centro di detenzione americano sul territorio cubano. Guantanamito, formalmente chiamata Centro de Estancia Temporal de los Inmigrantes, era basata a Nouadhibou ed era riservata alla detenzione dei migranti che erano sospettati di viaggiare verso l’Europa. L’assenza di diritto dietro a queste detenzioni era palese dal momento che, fino al 2010, la Mauritania non possedeva una normativa in materia di migrazione ‘irregolare’. In questo contesto sociale fortemente diviso a livello etnico, le autorità Mauritane approfittarono della lotta alle migrazioni verso l’Europa arrestando e detenendo a Guantanamito numerose persone sulla base della propria appartenenza etnica, rendendo così l’etnia e il colore della pelle un pretesto di sospetto migratorio. Questa situazione era aggravata, inoltre, dal fatto che gli spostamenti da un paese all’altro nella regione erano tradizionalmente di natura informale e parte di abitudini consolidate. Nonostante le critiche delle organizzazioni umanitarie, per diversi anni l’arresto e la deportazione anche di cittadini mauritani verso i confini del Mali e del Senegal rimase una pratica comune. Specialmente nei periodi in cui i migranti fermati in mare o sulle coste scarseggiavano, le autorità Mauritane organizzavano raid ed arresti arbitrari nei quartieri con un’alta densità di popolazione appartenente alle minoranze etniche. Questo sistema è stato chiamato da Ruben Andersson il “numbers game”, ossia l’aumento artificiale dei numeri di ‘migranti’ arrestati per dimostrare l’affidabilità e lo zelo nel mantenere gli accordi presi in materia di controllo delle frontiere. Da parte sua, l’UE si dimostrò molto attiva attraverso il finanziamento della costruzione di nuovi varchi di confine in Mauritania, stanziando tra il 2008 e il 2013 ben otto milioni di euro tramite il European Development Fund e il Instrument for Stability. In questo modo, nel solo 2010, l’Europa finanziò la costruzione di 45 nuovi posti di frontiera mauritani, rendendoli passaggi obbligati per l’attraversamento del confine con il Senegal e il Mali.
Con gli accordi bilaterali dalla Spagna con la Mauritania, si cominciarono anche a fornire mezzi ed addestramento alla Gendarmerie Mauritana per migliorare il monitoraggio delle proprie coste. Il nuovo sistema di controllo si dota rapidamente di un ampio ventaglio di supporti tecnologici come il controllo satellitare, l’utilizzo di droni e navi per pattugliare direttamente le acque territoriali della Mauritania e del Senegal. Questi interventi avevano lo scopo dichiarato di evitare naufragi e le numerose morti in mare, ma soprattutto l’Europa e la Spagna intendevano ridurre l’attenzione mediatica che segue questi eventi. La soluzione individuata di rafforzare gli sforzi per non far partire, e in particolar modo arrivare, i migranti sul territorio europeo attraverso una retorica che mascherava i pattugliamenti delle coste atlantiche e i respingimenti delle imbarcazioni come operazioni di natura umanitaria volte a salvare vite. La logica non faceva una piega, impedendo ai migranti di salpare si sarebbe evitata anche la possibilità dei naufragi. Questo impianto retorico sarà una costante nella comunicazione europea negli anni a seguire anche nel Mediterraneo. Riguardo alle operazioni HERA, se nel 2006 gli arrivi registrati nelle isole Canarie erano di circa 30.000 persone, dopo l’estensione del raggio di azione verso le coste senegalesi, i numeri degli arrivi scesero drasticamente. L’operazione HERA, festeggiata come un grande successo ‘umanitario’ da parte di Frontex e dell’Europa, spinse chi aveva intenzione di raggiungere il territorio europeo ad intraprendere percorsi più lunghi e soprattutto più pericolosi per la propria incolumità.
Gli spostamenti, in quel momento storico, cominciarono quindi a ridirezionare i propri itinerari verso il mare interno dell’Africa, il Sahara, attraverso il Niger e la Libia. Nonostante questo cambiamento, nel corso degli anni la rotta atlantica ha mantenuto un ruolo centrale nei tentativi e nelle morti di quelle persone che hanno tentato di attraversare questo lungo tratto di mare. Triste testimonianza è la nuova crescita delle partenze verso le Canarie a partire dal 2019, a seguito della crescente militarizzazione nel Mediterraneo e del nuovo ruolo occupato dalle milizie libiche nel controllo delle rotte verso l’Italia. Solo tra il 2020 e il 2021 si registrarono un aumento delle partenze, ma soprattutto, l’ennesimo aumento delle vittime in mare. In quel lasso di tempo, le stime parlano di oltre 4400 persone morte o disperse.
Photo credit Lourdes Zullo