Con almeno 1.922 tunisini rimpatriati nel 2020 e 1.872 nel 2021, la Tunisia rimane la principale destinazione dei rimpatri dall’Italia (73,5%).
Presentazione di uno studio sulle condizioni di soggiorno e sui percorsi dei migranti tunisini rimpatriati dall’Italia
Lo studio, realizzato da Avvocati Senza Frontiere (ASF), dal Forum tunisino dei diritti economici e sociali (FTDES) e dall’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (ASGI) nell’ambito dell’azione Harga “Garantire l’accesso alla giustizia ai cittadini tunisini vittime di rimpatri forzati dall’Italia”, riassume i risultati di un’indagine quantitativa realizzata attraverso interviste a cittadini tunisini rimpatriati dall’Italia e denuncia le condizioni di detenzione e il trattamento discriminatorio subito.
Dall’intercettazione in mare da parte della guardia costiera italiana al rimpatrio in Tunisia passando per la detenzione, i migranti tunisini attraversano un drammatico percorso a ostacoli.
L’emergenza sanitaria ha aggravato la situazione con l’impiego di navi quarantena. A due anni dalla loro istituzione, si confermano le gravi criticità che le caratterizzano, quali ostacoli all’accesso alla domanda di protezione internazionale, mancanza di garanzie sulla privazione della libertà individuale, mancanza di servizi, durata ingiustificata del soggiorno, igiene insufficiente.
Anche all’interno dei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), i centri di detenzione per cittadini stranieri in attesa dell’esecuzione di un ordine di rimpatrio, emergono gravi violazioni: maggiori difficoltà di accesso al diritto alla difesa, assenza di informazioni sui motivi del trattenimento in una lingua comprensibile, mancanza di rimedi effettivi davanti alle autorità giudiziarie.
Uno dei primi ostacoli per i tunisini durante tutto il percorso migratorio in Italia è spesso legato a informazioni mancanti o parziali: l’89% degli intervistati detenuti nel CPR non sarebbe stato informato dei motivi della detenzione; l’80% non ha ricevuto alcun documento dalle autorità italiane al momento del rimpatrio; il 70% ha dichiarato di non aver ricevuto informazioni sulla protezione internazionale. Ostacolare l’accesso alle informazioni impedisce alle persone l’effettivo esercizio dei propri diritti, facilitando l’esecuzione dei provvedimenti di rimpatrio.
Non solo la legittimità dei luoghi detentivi è giuridicamente lacunosa, ma le condizioni descritte dagli intervistati sono spesso pessime: all’interno dei CPR, il 52,9% ha dichiarato di non aver ricevuto un letto o una panca, così come un materasso e una coperta pulita; il 56,8% ha dichiarato di non aver ricevuto regolarmente kit per la toilette e l’igiene, così come vestiti puliti; il 68,6% ha dichiarato che il cibo non era sufficiente.
Inoltre, la sensazione di insicurezza all’interno di queste strutture è molto diffusa tra gli intervistati: il 70,5% ha dichiarato di non sentirsi al sicuro nei CPR; così come per gli episodi di violenza; l’88,2% è stato vittima di abusi all’interno dei CPR e nella maggioranza dei casi (82,3%), questi abusi sono stati causati dal personale del centro.
Lo studio, che presenta solo la punta dell’iceberg della gestione della migrazione, dimostra che l’approccio attuale alla migrazione evolve in senso sempre più securitario.
Anche sulla base dei risultati della ricerca e avendo come premessa il netto rifiuto del dispiegamento di dispositivi di controllo e repressione delle migrazioni, le organizzazioni sollecitano le autorità italiane a garantire il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, con il fine di porre definitivamente in discussione l’esistenza di tali meccanismi di controllo e contenimento che caratterizzano le politiche di gestione della mobilità nel suo complesso.