Si è tenuta oggi 16 dicembre 2021 la conferenza stampa di presentazione dell’appello di due donne vittime di tratta contro Italia e Libia: i due paesi sono accusati di aver violato gli articoli 2 e 6 della Convenzione per i diritti delle donne. Azione condotta nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka.
Princess e Doris (i nomi sono di fantasia per tutelare l’identità delle ricorrenti), sono arrivate in Libia dalla Nigeria rispettivamente nel 2017 e nel 2018. A condurle nel paese una rete criminale finalizzata allo sfruttamento della prostituzione che le ha ridotte in schiavitù. Nel 2018 e nel 2019, dopo essere state sfruttate, torturate e detenute arbitrariamente, sono state intercettate in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia e rimpatriate in Nigeria attraverso un programma dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) definito di “rimpatrio volontario umanitario”.
Il 3 dicembre 2021 le due donne, con il sostegno di avvocati dell’ASGI (Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini e Luce Bonzano) e del NULAI – Network di cliniche legali nigeriane – (Odinakaonye Lagi), hanno presentato ricorso contro Italia e Libia al Comitato delle Nazioni Unite sostenendo che i due paesi hanno violato gli articoli 2 e 6 della Convenzione per i diritti delle donne – il diritto alla non discriminazione e alla protezione dallo sfruttamento della prostituzione – e per averle sottoposte a una forma di espulsione “mascherata” che le ha esposte a ulteriori rischi determinati dal ritorno nel paese di origine, tra cui quello di essere nuovamente trafficate. L’inquadramento giuridico è la rilevanza delle violazioni nell’ambito della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne è stato possibile grazie alla partecipazione della International Protection of Human Rights Legal Clinic dell’Università Roma Tre, che ha redatto in occasione una Expert Opinion a supporto del ricorso.
I fatti: sfruttamento, riduzione in schiavitù ed espulsione
Le ricorrenti, come molte altre donne sottoposte alla tratta dalla Nigeria, hanno vissuto dinamiche di sfruttamento e riduzione in schiavitù molto simili: dal momento in cui hanno attraversato la frontiera con il Niger, sono state ripetutamente vendute e comprate da soggetti diversi. Hanno subito abusi e torture finalizzati a trarre profitto dal loro sfruttamento: in luoghi di detenzione informali sono state torturate con il fine di ottenere il pagamento di un riscatto dalle loro famiglie. Quando le famiglie non hanno potuto pagare, sono state vendute a persone che le hanno ridotte in schiavitù e le hanno costrette alla prostituzione per ripagare il costo della loro “liberazione”.
Tali dinamiche sono state vissute anche all’interno dei centri di detenzione libici, dove sono state condotte a seguito di arresti, retate nelle connection house in cui erano costrette a prostituirsi o intercettazioni in mare.
L’incontro con le autorità libiche, infatti, lungi dall’essere stata fonte di tutela, ha costituito un’ulteriore esposizione allo sfruttamento e alla violenza. Nonostante la loro condizione di vulnerabilità, le violenze e le persecuzioni subite in ragione dell’essere donne e vittime di tratta, le ricorrenti non hanno avuto accesso ad alcuna forma di protezione, né da parte delle autorità libiche – che, al contrario, sono state parte attiva nelle persecuzioni e nelle violenze nei loro confronti – né da parte delle organizzazioni internazionali presenti nel paese. La proposta di rimpatrio volontario, proveniente dall’OIM, ha costituito per le due donne, e costituisce in via generale per le vittime di tratta in Libia, l’unico strumento per sottrarsi alle condizione di sfruttamento, riduzione in schiavitù e ai maltrattamenti a cui sono state sottoposte dal momento in cui hanno iniziato il loro viaggio. Infatti, non esiste in Libia alcuna procedura di protezione né alle vittime di tratta sono resi accessibili in maniera strutturale i sistemi umanitari di evacuazione e reinsediamento.
L’inserimento nel programma di rimpatrio è avvenuto nonostante gli evidenti rischi corsi dalle donne al rientro nel paese, soprattutto in relazione all’inadeguatezza degli strumenti di reintegrazione nel contesto di origine e all’esposizione al rischio di re-trafficking.
Il rimpatrio così condotto non può essere considerato volontario: in primo luogo, non viene proposta nessuna alternativa per uscire da una situazione di detenzione e sfruttamento a tempo indefinito; in secondo luogo, non si può definire libera la volontà espressa in una situazione di soggezione come quella vissuta dalle ricorrenti che si trovavano detenute e sotto il giogo del sistema di tratta.
Le responsabilità delle politiche di esternalizzazione nello strutturarsi di pratiche di sfruttamento e riduzione in schiavitù
“Le esperienze delle ricorrenti non sono episodi isolati: quanto avvenuto si colloca infatti all’interno di una catena di sfruttamento delle persone migranti che costituisce un vero e proprio modello di business. Il processo di esternalizzazione delle frontiere e il sostegno italiano alle politiche libiche di gestione dei confini e dei flussi migratori hanno avuto un ruolo fondamentale nello strutturarsi di queste dinamiche di sfruttamento: è anche a partire dal blocco delle partenze e dalle intercettazioni in mare che si articola il sistema di messa a profitto delle persone migranti in Libia. Tale sistema contribuisce in particolare per le vittime di tratta ad alimentare una vera e propria riduzione in schiavitù in cui tutti gli attori coinvolti hanno un ruolo fondamentale” afferma Giulia Crescini
Infatti, secondo le ricorrenti, la responsabilità della Libia per le violazioni subite è legata non solo all’assenza di qualunque forma di protezione nei loro confronti, ma anche all’attivo coinvolgimento delle autorità nel loro sfruttamento.
L’Italia è invece responsabile, da un lato, per l’essenziale sostegno finanziario, logistico e politico fornito alle autorità libiche, senza il quale non sarebbe stata possibile l’implementazione di politiche di blocco e detenzione, ma anche per il finanziamento – con 11 milioni di euro tra il 2017 e il 2020 – dei programmi di rimpatrio eseguiti dall’OIM. Le autorità italiane sono consapevoli infatti della circostanza che attraverso l’istituto del rimpatrio volontario centinaia di donne vengono rimpatriate senza che sia stata loro offerta un’alternativa di protezione e nonostante ciò hanno continuato a finanziare OIM senza chiedere alcuna garanzia.
“All’interno dei confini europei le vittime di tratta di origine nigeriana sono donne in relazione ai quali gli Stati sono gravati da precisi obblighi internazionali di protezione anche dal refoulement, all’esterno di tali confini -lungo la rotta che le porta in Europa- tali obblighi vengono sistematicamente svuotati e violati laddove le vittime di tratta, vengono considerate alla stregua di migranti economiche e non vengono in nessun modo tenuti in considerazione i rischi a cui sono esposte al rientro” dichiarano le Avvocate Cristina Laura Cecchini e Luce Bonzano.
Il rischio di re-trafficking in Nigeria è ancora serio ed attuale e non può essere ignorato in considerazione del fatto che lo sfruttamento fonda le proprie radici in un sistema complesso dove non solo le organizzazioni criminali ma anche la povertà, la grave condizione femminile all’interno della società, le famiglie giocano un ruolo fondamentale. Conclude Odinakaonye Lagi del NULAI – Network di cliniche legali nigeriane
Due documenti di approfondimento giuridico sulle violazioni dell’art. 2 e 6 della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), le responsabilità dell’Italia e della Libia:
Documenti e riferimenti utili
- Malakooti, Arezo (2019). The Political Economy of Migrant Detention in Libya: Understanding the players and the business models. Report
- UN Document (2021). Report of the Independent Fact-Finding Mission on Libya
- Sciabaca e Oruka Project, ASGI (2021). Focus on Nigeria
- Borlizzi, Federica (2021). Nigeria: The risk of re-trafficking and (in)voluntary return of victims of trafficking
- Sciabaca e Oruka Project, ASGI (2021). Scheda sulle attività delle organizzazioni internazionali in Libia finanziate da fondi italiani
La vicenda di Doris
Doris è stata portata con l’inganno al confine con il Niger e da lì in poi è stata ripetutamente venduta e comprata. La prima volta è avvenuto proprio all’ingresso in Libia, poi ancora ad Agadez e nuovamente a Sabah, dove è stata venduta a un uomo che gestiva un luogo di detenzione informale conosciuto come Adam’s Ghetto. Qui è stata torturata fino a quando una madam l’ha comprata,”salvandola” dalle torture. Doris, per ripagare il debito contratto con la madam nel momento in cui è stata acquistata, è stata costretta ad avere rapporti sessuali a pagamento in una connection house a Sabah per oltre un mese. È riuscita a fuggire e a dirigersi verso il nord del paese, ma è stata arrestata da un uomo da lei identificato come poliziotto e condotta a Bani Walid, uno dei principali hub dello sfruttamento dei migranti in Libia. Nuovamente è stata detenuta e maltrattata, finché non è stata comprata, per la quinta volta nell’arco di pochi mesi, da un uomo che l’ha portata a casa e l’ha costretta a lavorare come domestica senza essere pagata. Doris è riuscita nuovamente a sottrarsi alla condizione di schiavitù e a imbarcarsi verso l’Europa. Tuttavia, è stata intercettata dalla Guardia costiera libica e nuovamente condotta in un centro e sottoposta a condizioni di detenzione inumane e degradanti. Nel centro di detenzione ha incontrato l’OIM che le ha proposto di tornare in Nigeria. Il rimpatrio è stata l’unica possibilità per Doris di sottrarsi alla condizione di sfruttamento, riduzione in schiavitù e ai maltrattamenti a cui è stata sottoposta dal momento in cui ha iniziato il suo viaggio.
Al ritorno in Nigeria, il programma di reintegrazione è consistito nel sostegno economico a un progetto imprenditoriale e in alcune lezioni di business management. Non ha avuto accesso ad alcun percorso di sostegno psicologico per l’elaborazione delle violenze, degli abusi, dei maltrattamenti subiti.
La vicenda di Princess
Princess ha lasciato la Nigeria sicura di arrivare in Italia. Al confine con il Niger sono stati fermati da un gruppo armato, torturate e derubate. Arrivate ad Agadez sono state detenute e vendute a un nuovo trafficante che le ha condotte a Sabah. Per la seconda volta, a Sabah, è stata venduta a un trafficante nigeriano che l’ha portata al nord e le ha estorto denaro che lei ha ricevuto dalla sua famiglia. A Tripoli è stata sequestrata da un altro uomo, che l’ha costretta a lavorare senza ricevere alcuna retribuzione. Princess è infine riuscita a scappare e a imbarcarsi per l’Italia grazie al sostegno economico della sua famiglia. La sua imbarcazione è però stata intercettata dalla Guardia costiera libica, che l’ha condotta nel centro di detenzione di Janzour. Qui è stata detenuta per tre mesi, finché non è stata comprata da una persona che l’ha costretta a prostituirsi per ripagare il prezzo della sua liberazione in una connection house di Tripoli. Per tre mesi è stata abusata sessualmente nella connection house, dove vivevano circa 200 ragazze in una situazione di schiavitù di fatto. A seguito dell’irruzione della polizia libica nella connection house, è stata arrestata e portata in un centro di detenzione di Tripoli. Qui è stata picchiata, costretta ai lavori forzati, abusata. In questo stesso centro ha incontrato gli agenti dell’OIM che le hanno proposto di aderire al programma di rimpatrio volontario umanitario. Princess ha accettato perché non vedeva altre possibilità per uscire dalla condizione di detenzione e sfruttamento in cui si trovava. Arrivata in Nigeria, ha ricevuto il sostegno economico di OIM per l’avvio di un suo progetto imprenditoriale e ha partecipato a un unico incontro di counseling psicologico. Non ha avuto accesso ad alcuna altra forma di sostegno medico o psicologico.