Un’analisi critica alla luce del contenzioso strategico di ASGI
di Alice Fill e Francesco Moresco
Il sistema dei Ritorni Volontari Assistiti (RVA), negli ultimi anni, è stato al centro di un crescente interesse da parte degli Stati membri dell’Unione Europea. Dal 2016, infatti, c’è stata un’ampia diffusione di programmi di ritorno volontario e di reintegrazione in Africa, attuati dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) e finanziati sia dall’Unione Europea attraverso il Fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa, sia da Paesi membri – quali l’Italia -, tramite il Fondo Africa.
Il ruolo di OIM nei rimpatri volontari
L’iniziativa congiunta UE-OIM per la protezione e la reintegrazione dei migranti è un chiaro esempio della diffusione su vasta scala delle operazioni di rimpatrio dai Paesi di transito, che copre più di 26 Paesi africani nella regione del Sahel e del Lago Ciad, nel Corno d’Africa e nel Nord Africa – ivi compresa la Libia. I rimpatri volontari assistiti sono stati infatti promossi come l’opzione migliore per una politica migratoria ben gestita all’interno del continente, basata sulla non dimostrata presunzione di essere un deterrente alla migrazione irregolare – senza alcuna considerazione delle più ampie dinamiche migratorie e di movimento nelle diverse aree.
I programmi di ritorno volontario assistito sono stati l’attività principale di OIM fin dalla sua creazione.
Secondo la definizione del programma fornita da OIM, i programmi di rimpatrio volontario assistito e reinserimento (RVAR) forniscono un rientro in patria dignitoso, promuovendo il reinserimento sostenibile dei migranti che non sono in grado o non vogliono rimanere nei Paesi ospitanti e desiderano fare rientro volontario nei Paesi di origine.
A completamento di una chiara strategia di esternalizzazione, l’azione di OIM ha ricevuto un supporto particolarmente rilevante in Libia: a seguito della forte riduzione delle partenze verso l’Europa ottenuta con accordi di cooperazione non poco problematici – tra i quali il Memorandum d’intesa del 2017 concluso tra Italia e Libia è forse l’esempio più eclatante –, il Paese è ormai diventato un carcere a cielo aperto, esposto costantemente al rischio dell’esplosione di una crisi umanitaria.
Secondo OIM, nel 2019 circa 663 000 migranti erano presenti sul suolo libico, mentre l’UNHCR, ad aprile 2020, ha registrato 48 732 presenze tra rifugiati e richiedenti asilo, che nel Paese non godono di alcuna forma di riconoscimento. L’urgenza che emerge è dunque quella di alleggerire la pressione migratoria sulla Libia, tentando di mitigare la crisi umanitaria anche attraverso programmi di evacuazione dei cittadini stranieri, come ad esempio il ritorno volontario nel paese di origine.
La retorica del rimpatrio volontario è ancora più forte nel delicato contesto libico, dove le procedure di RVA dell’OIM vengono definite dalla stessa organizzazione “Rimpatrio Volontario Umanitario” (RVU) e sono svolte nella cornice delle attività dell’organizzazione nel paese.
I programmi di rimpatrio volontario dalla Libia sono indirizzati ai migranti vulnerabili detenuti nei centri di detenzione, soccorsi in mare o bloccati nelle aree urbane libiche e sono realizzati in coordinamento con il DCIM (Directorate for Combating Illegal Migration) e con la Guardia Costiera libica. Concretamente, come indicato dal documento quadro per i RVA pubblicato sul sito dell’OIM, nel prestare assistenza quotidiana ai migranti, l’Organizzazione dovrebbe fornire informazioni agli eventuali beneficiari della possibilità di usufruire dei RVA/RVU senza doversi far carico di costi o incombenze amministrative.
Verrebbe poi condotta un’attività di counselling (svolta congiuntamente con l’UNHCR, nel caso in cui l’OIM ritenesse che i migranti in questione fossero potenziali rifugiati). Ad essa dovrebbe seguire infine la valutazione individuale dei profili di vulnerabilità dei beneficiari e dei rischi specifici del rientro nel Paese di origine.
Le principali criticità
I rimpatri volontari dalla Libia, tuttavia, presentano evidenti criticità – sia di carattere generale che legate al contesto specifico della Libia – che possono viziarne alcune componenti fondamentali, prima fra tutte la volontarietà del rimpatrio.
In primo luogo, la situazione libica fa sorgere dubbi sulla capacità di OIM di effettuare uno screening adeguato dei rischi del rimpatrio. Ciò vale in particolare per la condizione dei centri di detenzione gestiti dal Ministero dell’Interno libico, dove la detenzione generalizzata e a tempo indeterminato è basata esclusivamente sulla condizione migrante. Ad essa si aggiungono gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali perpetrate in un contesto di totale arbitrarietà della detenzione e del trattamento. La mancanza di accesso al cibo e ai prodotti sanitari, spesso connessa a condizioni di sovraffollamento, malnutrizione e diffusione di malattie, provoca una gravissima prostrazione fisica e psicologica. Molto spesso, inoltre, tali centri si trovano in aree coinvolte dal conflitto armato in corso ed espongono così le persone detenute ad un rischio ulteriore.
In secondo luogo, la sostanziale incapacità da parte delle autorità di gestire il fenomeno migratorio – oltre ad essere apertamente riconosciuta da OIM – è resa ancor più evidente dal fatto che buona parte dei centri ufficiali sono controllati da milizie. Inoltre, il rapporto della Support Mission dell’ONU in Libia ha mostrato il coinvolgimento diretto di organi del governo libico in violazioni sistematiche dei diritti umani, episodi di tortura e tratta.
Infine, appare dubbia in tale contesto la genuinità del consenso al rimpatrio, ove – in assenza di alternative alla detenzione – il RVA diviene l’unica possibilità effettiva per sottrarsi ai soprusi quotidiani e ad una situazione di violenze inaudite. Tale perplessità è in linea con quanto ribadito dall’“Handbook on voluntary repatriation” dell’UNHCR, dove si evidenzia che può essere ritenuto volontario solo il rimpatrio di una persona che ha diritto di rimanere nel Paese ospitante, che sia libera dalla detenzione e i cui diritti siano pienamente rispettati.
La stessa delegazione delle Nazioni Unite per la Libia ha inoltre sottolineato che la decisione di accedere al rimpatrio nel quadro dei RVA potrebbe non essere caratterizzata da piena volontarietà ed essere stata presa sotto coercizione. Soprattutto nei casi di maggiore vulnerabilità, il consenso al rimpatrio – di cui per altro appare difficile avere prova, soprattutto per quanto riguarda l’accertamento caso per caso dei rischi – potrebbe dunque esporre a ulteriori forme di persecuzione e alla possibilità di subire un respingimento verso un Paese non sicuro.
Come sin qui descritto l’attivazione dei RVA in Libia si inserisce dunque in una più ampia strategia di esternalizzazione sponsorizzata dai Paesi dell’UE e finalizzata a limitare il più possibile l’accesso di cittadini di Paesi terzi al territorio dell’Unione. La partecipazione “indiretta” dell’Italia al piano OIM – che si realizza attraverso il supporto finanziario – è idonea a far sorgere una serie di dubbi circa le responsabilità dello Stato per le carenze di tutela degli interessi dei migranti connesse all’implementazione delle operazioni di rimpatrio.
Le iniziative di ASGI
ASGI ha deciso di promuovere una serie di azioni strategiche finalizzate a verificare la legittimità dei progetti di rimpatrio e dell’impiego di fondi pubblici italiani a sostegno degli stessi. Nello specifico l’associazione ha tentato di valutare la legittimità dell’iniziativa dello Stato italiano di supporto del programma “Comprehensive and Multi Sectoral Action Plan in Response to the Migration Crisis in Libya”, finanziata il c.d. “Fondo Africa” formalizzato con l’intesa bilaterale tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e l’OIM del 4 agosto 2017. In particolare, della somma complessiva di 18 milioni, 10 milioni risultavano destinati al finanziamento del sub-programma “Humanitarian return and reintegration of vulnerable and stranded migrants out of Libya”. Circa due anni dopo, un ulteriore finanziamento di due milioni di euro è stato destinato alla prosecuzione del piano, con l’intesa del 27 maggio 2019.
Proprio sulla base delle minimali informazioni contenute in questi atti ministeriali, ASGI ha presentato, a partire dal gennaio 2019, una serie di richieste di informazioni alla direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del MAECI attraverso lo strumento dell’accesso civico. Tali richieste avevano l’obiettivo di ricostruire il complessivo andamento del piano OIM in Libia, con particolare riguardo al numero di soggetti e Paesi coinvolti nel programma rimpatri e agli accorgimenti adottati per tutelare i soggetti vulnerabili come minori, richiedenti protezione internazionale e vittime di tratta. Inoltre, sono state richieste informazioni sulla effettiva rendicontazione delle spese sostenute da OIM nell’implementazione del piano e del conseguente livello di coinvolgimento del Ministero nell’esame delle varie operazioni, anche economiche, in cui il piano stesso si è articolato.
Dalle risultanze dei vari accessi civici, sono emerse chiaramente una serie di negligenze nel controllo dell’effettivo impiego dei fondi stanziati: in primo luogo, il Ministero ha dichiarato a più riprese di non avere informazioni o documenti specifici relativi alle modalità di salvaguardia, all’interno del piano, di vari interessi fondamentali dei migranti. Manca, in particolare, qualsiasi riferimento alle procedure formali di identificazione e di tutela dei dati personali dei soggetti coinvolti, alle modalità di valutazione dei rischi connessi al rimpatrio nei vari Paesi di origine e al refoulement, alle forme di assistenza concretamente fornite ai soggetti vulnerabili onde assicurarne una genuina prestazione del consenso. Delle oltre 8000 persone assistite nel piano tra il 2017 e il 2019, risulta ignoto al Ministero quante costituissero potenziali o effettive vittime della tratta.
Se già gli scarsi dati forniti dal ministero segnalano evidenti problematiche sul piano dei diritti fondamentali connesse al piano OIM, ciò che risalta dalle varie operazioni di accesso civico è soprattutto una gravissima carenza di informazioni dello stesso MAECI sulle modalità di implementazione dei RVA in Libia, elemento capace di segnalare una gravissima negligenza del ministero in termini di monitoraggio e controllo sull’utilizzo dei fondi pubblici concessi a titolo di finanziamento.
Partendo da queste considerazioni, sono stati presentati due diversi ricorsi di fronte al Tar del Lazio, promossi rispettivamente da ASGI (insieme all’associazione Spazi circolari) e dall’associazione Differenza Donna nel gennaio 2020. Il primo ricorso si focalizza sulla negligenza del MAECI nel valutare il rischio di refoulement dei soggetti migranti coinvolti nei RVA in Libia. Questo rischio risulta evidente poichè varie operazioni effettuate da OIM a partire dal 2017 hanno riguardato il rimpatrio in Paesi come l’Eritrea e la Somalia, i cui cittadini godono di alte percentuali di riconoscimento della protezione internazionale in Europa. Anche rispetto a queste specifiche iniziative, non è chiaro come sia stato concretamente effettuato l’assessment relativo al pericolo di persecuzione del migrante nel Paese di origine e quale sia l’effettivo coinvolgimento di UNHCR in questo processo.
Il secondo ricorso si è concentrato, invece, sulla assenza di garanzie richieste dal Ministero ad OIM circa la presenza di strumenti idonei a identificare potenziali vittime di tratta. Come già sottolineato, la genuina prestazione del consenso della vittima vulnerabile costituisce un tema centrale nel contesto dei RVA: sorprende quindi l’assenza di qualsiasi dato numerico sul numero di vittime di tratta coinvolte nelle suddette operazioni o di protocolli operativi specifici circa l’identificazione della vittima prima della decisione di permetterne il rimpatrio. Numerosi dubbi sulla sicurezza dei ritorni stessi emergono, poi, dall’indicazione della Nigeria come meta principale delle operazioni di ritorno sponsorizzate da OIM (il 25% del totale). Il Paese, come sottolineato da ultimo anche nei recenti rapporti COI dell’agenzia EASO, costituisce infatti il principale luogo di provenienza delle vittime di tratta dirette dall’Africa verso l’Europa, il cui rimpatrio presenta fortissimi rischi sia sul piano della stigmatizzazione ed esclusione sociale, che su quello di un nuovo assoggettamento della vittima per fini di sfruttamento (re-trafficking).
In conclusione, al di là di quale sarà l’esito della vicenda processuale, questi ricorsi sono strumenti di fondamentale importanza per dimostrare la responsabilità dello stato italiano nelle gravi violazioni che possono potenzialmente scaturire nell’attuazione dei piani di rimaptrio volontario dalla Libia. Obiettivo delle azioni è anche quello – di ampliare la riflessione sul controverso ruolo delle organizzazioni internazionali in Libia e gli effetti nefasti delle politiche di esternalizzazione, tentando di rilanciare tali criticità nel dibattito pubblico.
Photo credit: Luciano Massimi