di Federica Borlizzi
Le donne nigeriane fanno parte di una delle cinque nazionalità extra-europee più a rischio di tratta. Secondo l’OIM, l’80% delle ragazze nigeriane giunte in Italia è potenzialmente vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale[1]. Il viaggio verso l’Europa è solitamente organizzato dalle madam ed è realizzato tramite uomini che accompagnano le vittime durante il tragitto.
Lungi dall’essere un fenomeno lineare, la tratta delle donne nigeriane vive, in realtà, di continue interruzioni.
In particolare, nei paesi di transito (Niger e Libia), può accadere che la donna si trovi dinanzi ad un affievolimento della soggezione stessa da parte della rete dei trafficanti oppure sia soggetta ad altri tipi di sfruttamento. Ciò è ancora più rilevante nel contesto libico dove la crisi politica degli ultimi anni ha comportato un’incapacità delle organizzazioni criminali nigeriane di mantenere un controllo continuativo sulle vittime.
Proprio all’interno di queste interruzioni si segnala il fallimento delle reti di protezione che non riescono ad intercettare ed a tutelare i soggetti più vulnerabili. Fallimenti che possono anche condurre al c.d. “re-trafficking” che, tradizionalmente, indica il fenomeno in base al quale la vittima sia fuoriuscita dai circuiti dello sfruttamento ma, una volta tornata nel paese d’origine, sia nuovamente sottoposta a tratta. Nonostante siano numerose le testimonianze di donne nigeriane rimpatriate e sottoposte nuovamente a tratta, sorprende il dover constatare la mancanza di statistiche complessive su tale fenomeno.
L’assenza di dati
Dati non presenti neanche nei casi in cui il ritorno assuma la forma dei c.d. “Assisted Voluntary Return and Reintegration” (AVRR), attuati dall’OIM dalle zone di transito e finanziati dall’UE, attraverso l’EUTFA[2] e dal Governo italiano, tramite il “Fondo Africa”[3]. Gli AVRR fanno parte di una più complessiva strategia di esternalizzazione delle frontiere messa in campo dai paesi europei ed avente il fine ultimo di bloccare l’arrivo dei migranti, attraverso una gestione dei flussi posta in capo ai paesi africani di transito, solitamente coadiuvati dalle Agenzie delle NU per i Rifugiati e per le Migrazioni. Dunque, non stupisce che, nella narrazione dominante, i rimpatri volontari siano ritenuti una parte essenziale della gestione globale delle migrazioni e vengano presentati come “un’opzione favorevole per i migranti, il cui viaggio ha preso una strada diversa da quella inizialmente prevista e che desiderano tornare a casa”[4].
Tuttavia, è lo stesso elemento della “volontarietà” di tali rimpatri a dover essere messo in discussione, soprattutto quando essi avvengono dalla Libia o dal Niger. A tal proposito, nel maggio 2018, il Relatore speciale delle NU per i diritti dei migranti ha evidenziato come, nella maggior parte dei casi, tali rimpatri non possano considerarsi realmente “volontari” per la mancanza di una decisione priva di coercizione e pienamente informata: molti migranti accettano il rimpatrio perché sono in una condizione di detenzione o per assenza di reali alternative[5].
Ulteriore aspetto problematico è rappresentato dalla mancanza di chiarezza sulle procedure seguite nelle diverse fasi del rimpatrio volontario. A riguardo, le linee guida pubblicate dall’OIM sui programmi di AVRR menzionano genericamente la necessità di effettuare una valutazione dei rischi cui le potenziali vittime di tratta potrebbero andare incontro una volta ritornate nel paese d’origine[6]. Tuttavia, lo stesso Relatore speciale delle NU ha ritenuto “legittime” le preoccupazioni per le possibili violazioni dei diritti umani derivanti dai processi di esternalizzazione delle frontiere, con particolare riferimento proprio ai rimpatri effettuati dall’OIM, ed ha sottolineato come qualsiasi programma di AVRR dovrebbe comprendere un sistema di monitoraggio e di valutazione, trasparente e pubblico[7]. Monitoraggio che, con riferimento ai rimpatri volontari effettuati dal Niger e dalla Libia, non sembra essere stato elaborato o, quantomeno, reso pubblico.
Quali reali capacità di monitoraggio?
L’assenza di dati ufficiali comporta il dover analizzare l’efficacia di tali programmi attraverso documenti redatti da ricercatori o ONG che hanno svolto indagini ed interviste sul campo. A riguardo, proprio in uno di questi recenti rapporti, si evidenzia come tra il maggio del 2017 ed il febbraio 2019 siano stati 12.000 i cittadini nigeriani che hanno aderito ai programmi di rimpatrio volontario, in misura prevalente dalla Libia (89%). Di questi 12.000 solo 7.000 (ossia il 58%) ha ottenuto un sostegno dall’OIM per la reintegrazione[8].
Che fine hanno fatto le restanti 5000 persone rimpatriate? Quante di loro erano potenziali vittime di tratta che non hanno ricevuto protezione, rischiando così di essere soggette a re-trafficking?
D’altronde, che vi siano delle falle nell’individuazione dei soggetti vulnerabili tra i migranti nigeriani rimpatriati è confermato dallo stessa Relatrice speciale delle NU che ha sottolineato come, a fronte di 9.695 aderenti ai programmi di AVRR all’agosto 2018, solo 440 (4,5%) sono stati identificati dall’OIM, in collaborazione con la NAPTIP, come vittime di tratta. Dato non ritenuto credibile dalla Relatrice che ha sottolineato come, anche in considerazione delle condizioni inumane in cui si trovano i migranti in Libia, il numero di vittime di tratta dovrebbe risultare molto più elevato[9].
Peraltro, a causa dell’aumento dei rimpatri volontari dalle zone di transito, il già precario sistema nigeriano di protezione delle vittime sembra essere entrato in piena crisi[10] e la stessa OIM non risulta più in grado di attuare i programmi di assistenza al reinserimento[11].
Una domanda, dunque, sorge spontanea: a vantaggio di chi ed a quale costo vengono attuate le politiche di (in)voluntary return?
La vita dopo il ritorno
Il ritorno in Nigeria per le vittime di tratta è segnato da enormi difficoltà dovute alla carenza dei servizi offerti e allo stigma sociale.
Quanto al primo aspetto, bisogna evidenziare come nel 2003 sia stata istituita la NAPTIP (National Agency for Prohibition of Trafficking in Persons), Agenzia anti-tratta dipendente dal Ministero federale della giustizia ed avente tra i propri scopi la prevenzione della tratta, il perseguimento degli autori del reato di tratta di persone; l’organizzazione del ritorno e della reintegrazione delle vittime. In ogni caso, nel 2019, secondo i dati resi disponibili dalla NAPTIP, sono state “salvate” 1152 vittime di tratta: la metà di queste era minorenne e, rispetto al sesso, l’80% erano donne ed il 20% uomini[12] .
I 10 rifugi gestiti dall’Agenzia sono riservati a donne e minori, per un totale di soli 334 posti. L’ingresso in tali strutture è l’unico modo attraverso il quale le vittime possono ottenere un sostegno dalle autorità nigeriane tuttavia non esistono dei criteri chiari che disciplinino le modalità di accesso. Questa criticità si somma ad ulteriori problematiche riguardanti la gestione dei rifugi. In particolare, destano numerose perplessità:
- la presenza di rifugi “misti” che accolgono sia vittime di tratta sia vittime di altre forme di violenza (ad es. violenza domestica). Ciò ostacola l’efficacia della riabilitazione delle vittime di tratta, spesso costrette a subire anche nei rifugi lo stigma derivante dall’esperienza di prostituzione forzata[13].
- il periodo di permanenza limitato nei rifugi, che risulta essere di sole sei settimane e che, secondo le NU, si rivela insufficiente per consentire una reale riabilitazione delle vittime[14];
- la detenzione arbitraria e la negazione della libertà di movimento delle persone ospitate. Tale stato di detenzione arbitraria mina il reinserimento della vittima nella comunità, indebolisce la fiducia nei servizi forniti e impedisce alle vittime di richiedere la protezione e l’assistenza necessaria, tanto che le vittime spesso rifiutano l’accoglienza[15].
Con specifico riferimento ai servizi offerti, in base a delle interviste effettuate da Human Right Watch tra il 2017 ed il 2018, emerge come la maggior parte delle vittime ritenga di non aver ricevuto assistenza adeguata né dalla NAPTIP né dall’OIM, in particolare rispetto alle cure sanitarie (in primis di supporto psicologico); al sostegno economico; ai programmi di acquisizione di competenze e di ricerca lavoro[16].
Proprio l’insufficienza dei rifugi e la carenza dei servizi sono una delle cause che possono portare le vittime di tratta ad essere ri-trafficate. A ciò si aggiungono ulteriori profili problematici derivanti sia dal contesto sociale sia dalla complessa organizzazione nigeriana della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Infatti, spesso, all’origine delle storie di tratta vi sono pressioni molto forti effettuate dai familiari della vittima.
Accade, dunque, che siano gli stessi parenti della donna a contattare i trafficanti ed a consentirne il reclutamento. Ciò comporta che, al suo ritorno, la vittima possa subire il rifiuto familiare per non aver soddisfatto le aspettative di guadagno, cui si associa l’esclusione sociale dalla propria comunità. Situazioni di marginalità che aumentano il rischio di re-trafficking, anche tenendo in considerazione i subdoli meccanismi di soggezione messi in campo dalle reti criminali nigeriane. Tra questi assumono rilevanza i c.d. riti juju ed il debito.
Considerazioni finali e spunti critici
Il quadro delineato fa emergere un pericoloso circolo vizioso in cui le vittime di tratta nigeriane rischiano di essere intrappolate.
L’assenza di canali di ingresso legali in Europa e il progressivo processo di esternalizzazione delle frontiere sembrano avere come unico risultato quelle di rendere le donne sfruttate ancora più vulnerabili. In questo senso, i rimpatri volontari offerti dall’OIM dai paesi di transito non appaiono una soluzione adeguata ma divengono, in molti casi, parte del problema. In assenza, infatti, di un attento monitoraggio dei fattori di rischio e data la carenza di servizi nel paese d’origine, il re-trafficking rappresenta un pericolo concreto.
Da ultimo, appare opportuna una riflessione rivolta all’impatto che le pratiche di “salvataggio” condotte dalla c.d. “Guardia costiera libica” comportano rispetto al rischio di di re-trafficking: i migranti intercettati da quest’ultima vengono, infatti, riportati in centri di detenzione libici dove – come confermato dalle NU[17]– sono esposti al pericolo di rientrare nel circuito della tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo. Si potrebbe, dunque, delineare un rischio concreto di re-trafficking in Libia, legittimato e favorito da quei finanziamenti che il nostro paese continua ad elargire alla “Libyan Coast Guard”, di cui è oramai accertata la connivenza con i trafficanti di esseri umani[18].
[1] OIM, Human trafficking through the central Mediterranean route: data, stories and information collected by the international organisation for migration , 2017, p. 9.
[2] European Union Emergency Trust Fund for Africa è stato istituito nel novembre del 2015 con lo scopo di fornire una risposta coordinata alle cause dell’immigrazione irregolare. Secondo Oxfam dalla data della sua istituzione fino a maggio 2019, l’EUTFA ha finanziato progetti per 3,9 miliardi di euro, di cui la maggior parte riguardanti la cooperazione per lo sviluppo (56%) e le spese per le governance delle migrazioni (26%). Tra questi vi sono anche i finanziamenti, pari a 100 milioni di euro, erogati ad UNHCR e OIM per “evacuare”i rifugiati ed i migranti dalla Libia.In Oxfam, The UE Trust Fund for Africa, gennaio 2020, rispettivamente pp. 4 e 18.
[3] Il “Fondo Africa” è stato istituito dal Governo italiano con la legge di bilancio per il 2017 ed ha come obiettivo principale il contrasto all’immigrazione irregolare ed al traffico di esseri umani, tenendo in considerazione “il ruolo di eccezionale rilevanza di Libia, Niger e Tunisia, nella gestione della rotta del Mediterraneo centrale” (MAECI, D.M. 1 febbraio 2017, p.2). Il finanziamento iniziale previsto per il “Fondo Africa” era di 200 milioni di euro per il 2017, rinnovato negli anni successivi (30 milioni per il 2018 e 50 milioni per il 2019). Proprio nell’ambito del “Fondo Africa” è stata firmata un’intesa tra il Ministero degli Affari Esteri e l’OIM, con l’erogazione nei riguardi di quest’ultima di 10 milioni di euro per la realizzazione di rimpatri volontari assistiti dalla Libia (MAECI, Delibera n.2 del 27 giugno 2017, p.2).
[4] OIM, RETURN AND REINTEGRATION KEY HIGHLIGHTS, luglio 2020, p.IX.
[5] Consiglio dei diritti umani delle NU, Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, 4 maggio 2018, p. 8.
[6] OIM, A FRAMEWORK FOR ASSISTED VOLUNTARY RETURNAND REINTEGRATION, 2018, p.18.
[7] Consiglio dei diritti umani delle NU, Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, 4 maggio 2018, rispettivamente, par.82 e 53
[8] Jill Alpes, Emergency returns by IOM from Libya and Niger, luglio 2020, p.11.
[9] Consiglio dei diritti umani delle NU, Report of Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children, 16 aprile 2019, p.11.
[10] US Dos, Trafficking in Persons Report, giugno 2020, p.380.
[11] Jill Alpes, Emergency returns by IOM from Libya and Niger, luglio 2020, p.10.
[12] Naptip, 2019-Data Analysis, dicembre 2019, p.9.
[13] Human Rights Watch, You Pray for Death -Trafficking of Women and Girls in Nigeria, agosto 2019, p.57.
[14] Ibidem.
[15] Human Rights Watch, You Pray for Death -Trafficking of Women and Girls in Nigeria, agosto 2019, pp. 58-64.
[16] Human Rights Watch, You Pray for Death -Trafficking of Women and Girls in Nigeria, agosto 2019, pp. 70-75.
[17] UNSMIL, Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, 20 dicembre 2018, p. 4.
[18] Nel giugno 2017 il Gruppo di esperti del Comitato delle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle NU sulla Libia ha denunciato il coinvolgimento della c.d. Guardia costiera libica nella tratta di esseri umani. In Consiglio di sicurezza delle NU, Report of the Libya Panel of Experts, 1 giugno 2017, pp. 61 e 63.
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