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Vulnerabilità e gestione delle migrazioni: direttrici per uno sguardo critico tra problematicità e potenzialità sommerse 

11 Aprile 2022

di Davide Tomaselli*


Introduzione

Nel corso degli ultimi decenni, il concetto di vulnerabilità è penetrato in maniera sempre più pervasiva non solo in diverse discipline accademiche, dagli studi femministi a quelli di bioetica, ma anche nell’ambito legislativo e istituzionale (di elaborazione delle policies). L’incremento significativo dei riferimenti a questa categoria è stato accompagnato da critiche, tanto è vero che ancora oggi, sia in merito alla dimensione definitoria sia riguardo ai suoi risvolti pratici applicativi, la vulnerabilità rimane oggetto di discussione. Il fenomeno migratorio e la sua governance non sono stati esentati da questo sviluppo nella misura in cui la vulnerabilità è stata chiamata in causa con sempre maggiore frequenza per descrivere, distinguere, gestire e regolare le persone migranti e le loro condizioni, innanzitutto giuridiche.

Prendendo in considerazione la congiuntura storica attuale, la vulnerabilità offre un punto di vista favorevole ai fini dell’analisi delle tendenze emergenti dai comportamenti di Unione europea e Paesi membri nella gestione dei flussi migratori e del sistema della protezione internazionale. Questo articolo si pone dunque come obiettivi di tratteggiare una mappatura dei possibili usi strumentali della vulnerabilità ai fini dell’esternalizzazione delle frontiere e della riduzione delle tutele fondamentali e di proporre alcuni spunti di riflessione riguardo alle criticità legate all’uso legislativo e istituzionale della vulnerabilità

Il setaccio della vulnerabilità: uno strumento di selezione lungo le frontiere

A titolo esemplificativo, tre casi possono rappresentare efficacemente come la vulnerabilità intervenga a diversi stadi lungo il percorso migratorio per incrementare o rinforzare la capacità di filtraggio delle frontiere.

Attenendosi al senso più specifico di esternalizzazione delle frontiere, la vulnerabilità interviene già nei territori di Paesi terzi posti sulle rotte migratorie, specialmente tramite l’azione di organizzazioni internazionali e al fine di orientare programmi tanto di rimpatri volontari quanto di resettlement (si veda a tal proposito l’articolo: “IOM, vulnerabilità alla tratta e migration management: spunti per uno studio del contesto libico,   https://sciabacaoruka.asgi.it/iom-vulnerabilita-alla-tratta-e-migration-management-spunti-per-uno-studio-del-contesto-libico/). Già a questo stadio, l’impiego della categoria di vulnerabilità può essere difficilmente valutato come la risposta diretta a effettive situazioni di eccezionale fragilità. Ciò è vero tanto a causa dell’inconsistenza delle definizioni contenute nelle linee guida di riferimento, non orientate da chiare disposizioni legislative visto il vuoto normativo che caratterizza questo contesto, quanto della sommarietà delle procedure di assessment. In questo senso, ancor prima che si profili per le persone migranti l’opportunità di avanzare domanda di protezione internazionale, la vulnerabilità appare più come un discutibile dispositivo di selezione.

Procedendo lungo le rotte migratorie, a cavallo delle frontiere stesse dell’Unione, in un limbo legale tra esterno e interno, la vulnerabilità si presenta nuovamente nella forma di soglia di sbarramento diversificata per l’accesso più o meno rapido, più o meno facile alla procedura di domanda d’asilo. La situazione nei due Paesi più interessati dal primo impatto dei flussi migratori, Grecia e Italia, è rappresentativa di questo tipo di funzione. Trasponendo in dispositivi legislativi nazionali il dettato delle norme europee contenute nella direttiva 2013/32, sia Grecia che Italia hanno previsto garanzie particolari per lə richiedenti vulnerabili. In particolare, la legge greca, così come da ultimo modificata dalla IPA del 2020, prevede l’esenzione per richiedenti vulnerabili da procedure accelerate e di frontiera ove non sia possibile garantire un adeguato supporto alle loro specifiche esigenze. Similmente, la legge italiana, così come da ultimo modificata dal d.l. 130/2020 convertito in l. 173/2020, esclude dalla procedura accelerata le persone che necessitano di particolari garanzie procedurali e prevede oltretutto la priorità dell’esame delle loro domande presso le commissioni territoriali. Considerati i tempi che caratterizzano le procedure d’esame, ben più lunghi di quelli previsti dalla normativa europea, le pessime condizioni di accoglienza nei centri alle frontiere, in particolare nei campi situati sulle isole greche, e le criticità delle procedure seguite per l’identificazione delle vulnerabilità – oltretutto sempre più legittimate prevalentemente attraverso il linguaggio medico -, la distinzione tra richiedenti vulnerabili e non diventa determinante di conseguenze gravose sulla cui legittimità e giustificazione è lecito discutere.


Primi spunti per un’analisi critica del concetto

Superati i confini esterni dell’Unione, infine, la vulnerabilità interviene anche nel corso della procedura di valutazione della richiesta di protezione internazionale, tanto influenzando la scelta nel merito dello status giuridico, quanto permettendo l’individuazione di individui che necessitano di procedure particolari o specifiche condizioni di accoglienza. Le norme europee rilevanti da questo punto di vista sono contenute in due direttive comunitarie, la già citata 2013/32 relativa alle procedure comuni per il riconoscimento dello status di protezione internazionale e la 2013/33 riguardante le norme relative all’accoglienza dellə richiedenti asilo. Sebbene le attuali negoziazioni scaturite dalla proposta del New Pact on Migration and Asylum da parte della Commissione europea potrebbero modificare queste direttive, le bozze dei testi attualmente in discussione conservano nella sostanza i riferimenti alla vulnerabilità. Nello specifico, le stesse problematiche già espresse si ripetono anche a questo livello, rendendo in particolare necessaria un’analisi rispetto ai possibili effetti dell’uso della vulnerabilità come filtro. Questi ultimi consistono non tanto o non solo nella protezione di pochi individui tra tutte le persone migranti, quando piuttosto nell’esclusione della maggior parte che non raggiungono più l’innalzata “soglia di vulnerabilità” richiesta per varie forme di protezione. A tal proposito, è interessante osservare anche il ruolo che rivestono le Corti, nazionali ed europee, nell’elaborare a livello giurisprudenziale la definizione pertinente di vulnerabilità. La loro azione, così come per quanto riguarda gli altri enti istituzionali coinvolti nella governance delle migrazioni, ha la potenzialità di incidere sulla questione, favorendo l’uso della vulnerabilità come moltiplicatore di protezione o di filtraggio.

Prendendo spunto da queste considerazioni, si possono avanzare alcune osservazioni rispetto alle criticità che l’applicazione del concetto di vulnerabilità comporta in un contesto legislativo, istituzionale o giuridico.

Esaminando in prima istanza proprio le formulazioni legislative e istituzionali del concetto di vulnerabilità, l’ambiguità e la discordanza delle diverse definizioni adottate sono tanto rilevanti da comportare conseguentemente potenziali incertezze interpretative e arbitrarietà a livello applicativo. Questa circostanza è determinata innanzitutto dal fatto che, formalmente, non esiste alcuna definizione della vulnerabilità in sé. Al contrario, tutti i testi legislativi e istituzionali che vi fanno riferimento la esplicitano sotto forma di elenchi di gruppi o situazioni vulnerabili. Nella misura in cui tali elenchi non solo non sono condivisi da tutti gli attori coinvolti, ma tendono anche a mutare nel tempo, la protezione fornita dalla vulnerabilità non sembra prevedibile in maniera certa e trasparente. Quest’ultima valutazione si aggrava se si considerano da un lato la varietà delle procedure adottate per l’identificazione delle vulnerabilità, peraltro sempre più automatizzate e accelerate, e dall’altro la confusione che può crearsi a causa dei rapporti incerti con altre categorie, impiegate innanzitutto dal diritto europeo, come quelle di bisogni specifici e di necessità di garanzie procedurali particolari.

Risalendo dal livello legislativo e istituzionale a quello teorico-filosofico nel tentativo di fare chiarezza sull’inconsistenza definitoria della categoria di vulnerabilità, si ripresentano ostacoli simili. Nello specifico, anche le voci di varie discipline che hanno tentato di elaborare una definizione teorica della vulnerabilità si sono divise tra formulazioni di tipo ontologico oppure situazionale. Semplificando e provando a ricondurre a ideal-tipi, le prime posizioni individuano la vulnerabilità, oltre che universalmente in tutti gli esseri umani, in certe persone – o in certi gruppi di persone – portatrici di specifiche qualità o caratteristiche, tendenzialmente innate ma potenzialmente acquisite, che determinano la loro specifica fragilità, esposizione al rischio o all’oppressione. Le posizioni del secondo tipo, invece, associano la vulnerabilità a determinate situazioni o condizioni che, conseguentemente, coinvolgono le persone che vi si ritrovano. Entrambe le posizioni, nella loro dimensione ideal-tipica, risultano parziali, insufficienti o problematiche. L’interpretazione ontologica della vulnerabilità tende ad essenzializzare gli individui vulnerabili e a non contemplarne l’autodeterminazione, la resilienza e l’autonomia. D’altro canto, l’interpretazione situazionale tende ad escludere dalla vulnerabilità tutte le persone che non si trovano in certe situazioni predeterminate, ignorando le differenze che, tra individui, si producono a partire da certe caratteristiche identitarie. Chiaramente, la distinzione tra le due posizioni non è assoluta, tutt’altro: sono già state espresse posizioni ibride o composite[1]. Permangono, tuttavia, problemi irrisolti (irrisolvibili?) di simile natura a livello definitorio e probabilmente legati all’inquadramento della vulnerabilità come qualità distint(iv)a e discreta.

Tenendo a mente le dinamiche disfunzionali appena esplicitate, e ritornando alla sfera legislativa e istituzionale, è necessario considerare una dimensione aggiuntiva che contribuisce a distorcere o filtrare l’applicazione della categoria di vulnerabilità. Ne fanno parte l’insieme degli stereotipi, delle strutture discriminatorie, dei vettori di potere/dominio che, più o meno consapevolmente, orientano o manovrano l’agire degli attori istituzionali (e non solo) che si relazionano allə richiedenti. Schematicamente, questa dimensione risulta rilevante nei casi in cui gli attori istituzionali proiettano sullə richiedenti aspettative precostituite che, qualora non corrisposte, determinano il rigetto delle loro istanze. Sintetizzando, due sono le direttrici principali sulle quali si sviluppa l’amalgama di questi vettori di potere. Da un lato quella dell’eurocentrismo e del razzismo, dall’altro quella del cis-etero-normativismo. A complemento di queste si pone il rapporto di potere che si istaura di volta in volta tra attore istituzionale e richiedente e che fornisce in termini generali i confini di un campo d’azione entro cui leggere e interpretare le vicende di qualsiasi persona migrante. Lo strumento principale tramite cui si attiva la rete di questi rapporti di potere è quello dell’audizione, e nello specifico del racconto che la persona migrante è tenuta a fare di sé di fronte all’istituzione[2]. Cis-etero-normativismo, eurocentrismo e razzismo istituzionali, a costo del riconoscimento dello status legale e della fornitura di servizi essenziali, possono imporre standard di verità a cui lə richiedenti devono rispondere. In questo senso, l’intenzione di impiegare la categoria di vulnerabilità ai fini della protezione può facilmente veicolare vittimizzazione e imporre, producendole, certe soggettività. Non trascurando il fatto che questo discorso vale a livello strutturale, lo stesso cui pertengono potere/dominio, cis-etero-normativismo, eurocentrismo e razzismo, la posizione degli attori istituzionali coinvolti, pur dovendo fare i conti con un campo d’azione già disegnato, non è predeterminata. A questo proposito, il riconoscimento di queste dinamiche nei microcontesti dell’azione istituzionale e l’introduzione di rilevanti occasioni di formazione rappresentano senza dubbio utili correttivi.

Componendo tutte le riflessioni, si potrebbe avanzare un’ipotesi secondo cui la distinzione tra migranti vulnerabili e non si stia consolidando nella forma di una faglia di secondo livello, un nuovo binarismo da aggiungere a quello già ben noto che distingue nettamente rifugiatə da migranti economicə. Se questa supposizione trovasse riscontro concreto, la vulnerabilità rivestirebbe a pieno titolo il ruolo di strumento filtrante, prima che (o piuttosto che) di indicatore della necessità di protezione. In altre parole, l’applicazione della vulnerabilità alla governance delle migrazioni complicherebbe la gerarchia delle persone migranti, selezionandone ancora meno più per disfarsi delle rimanenti che per proteggere con particolare cura le prime. In questi termini, una simile circostanza si rivelerebbe favorevole all’ulteriore sviluppo di dinamiche già radicate e già citate, ossia l’esternalizzazione delle frontiere e la riduzione delle tutele offerte dallo stato.

Tra gli altri, un caso in particolare può risultare interessante per osservare tutte queste criticità. Le persone appartenenti alla comunità LGBTIQ+ inserite nel sistema dell’accoglienza e della protezione internazionale sono raramente citate tra le categorie vulnerabili. Se lo sono, diverse fonti trattano le loro condizioni in maniera differente. Non c’è, in sostanza, certezza giuridica riguardo alla loro eventuale vulnerabilità. Non solo: risulta difficile fare riferimento a una specifica definizione di vulnerabilità nel loro caso. Se è vero che da un lato una versione ontologica della vulnerabilità permetterebbe di dar conto della loro specifica qualità identitaria oppressa e causa di discriminazione e violenza, dall’altro proprio la dinamicità, la poliedricità connessa alla continua rielaborazione della propria identità individuale rispetto alle componenti del genere e della sessualità non si possono rispecchiare in una generale definizione essenzializzante. Similmente, una versione situazionale della vulnerabilità avrebbe difficoltà a riconoscere la peculiarità di certi tratti identitari che potenzialmente costituiscono fonti di rischio, insicurezza, fragilità, pur evitando di dare per scontata la condizione di vulnerabilità a prescindere dalle specifiche situazioni. E ancora, l’eventuale tentativo di far emergere i profili di vulnerabilità di individui LGBTIQ+ migranti è oltretutto sottoposto all’azione di stereotipi, prodotti in prima istanza dall’intersecarsi di rapporti di potere cis-etero-normati ed eurocentrici. In questo caso, ciò significa che la capacità istituzionale di riconoscere la vulnerabilità è condizionata da componenti narrative prefabbricate che tendono a imporre (e ad esigere), innanzitutto, le forme e i modi occidentali dell’essere e riconoscersi queer. Lo studio attento delle conseguenze dell’interazione di questi fattori, nella loro presunta capacità di garantire protezione oppure di implementare nuovi criteri di filtraggio delle richieste, fornisce sicuramente un punto di vista stimolante.


Conclusioni

Si sono evidenziati fino ad ora quali possono essere alcuni profili problematici legati all’impiego legislativo, istituzionale e giuridico della vulnerabilità. La volontà di fare chiarezza, con sguardo critico, sullo stato dell’arte relativo a questa categoria ha giustificato questa operazione. È chiaro, tuttavia, che almeno a livello teorico, così come probabilmente nelle intenzioni a monte di questa traslazione della vulnerabilità nel dominio della governance delle migrazioni, devono esserle riconosciute alcune potenzialità. Senz’altro, si può concordare che, al di là delle più specifiche divergenze definitorie, l’individuazione di vulnerabilità si associ al riconoscimento di fragilità, ad una situazione di (parziale, relativa) mancanza di autonomia, di (parziale, relativa) esposizione all’oppressione e al dominio. A partire da questa condizione, l’intervento di un ente terzo in condizione (relativa) di potere, sia esso lo stato o un altro attore, può seguire almeno due strade: lo sfruttamento o la protezione della condizione di vulnerabilità. Proseguendo su quest’ultima strada, e a seconda della particolare forma della volontà che muove l’intervento esterno, alla protezione può seguire, come d’altronde propongono numerose voci in letteratura[3], il sostegno alla riconquista della propria autodeterminazione, l’empowerment. Inquadrando la vulnerabilità in questa cornice, riconoscendola ossia come una lente, un prisma, un certo tipo di sguardo sulla realtà che di per sé poco dice sulle conseguenze che può comportare, appare più chiaro come, nello spazio che intercorre tra le diverse definizioni che se ne possono formulare e la varietà delle intenzioni politiche che possono direzionarne l’applicazione, si possano avanzare due considerazioni conclusive.

Come già anticipato all’inizio e poi accennato nel corso dell’articolo, sembra che la vulnerabilità sia usata con crescente convinzione come strumento narrativo di policy per giustificare e operativizzare alcune delle dinamiche di sviluppo dell’attuale governance delle migrazioni europee, esternalizzazione delle frontiere, accelerazione delle procedure e contrazione delle tutele fondamentali in primis. A tal proposito, è utile ripetere che, sebbene sia ancora in fase di negoziazione, il pacchetto legislativo contenuto nel New Pact on Migration and Asylum avanzato dalla Commissione europea non solo non rinuncia alla categoria di vulnerabilità, ma non sembra nemmeno dissociarla dal suo sopracitato uso. Per questa ragione, proprio l’interpretazione e le modalità di impiego della categoria di vulnerabilità risultano due variabili significative da monitorare per osservare, comprendere e forse prevedere l’evoluzione del sistema di asilo. Non stupisce in questo senso l’esistenza e il focus di uno specifico progetto di ricerca europeo, VULNER (https://www.vulner.eu/), dedicato a indagare come il diritto valuti, gestisca, modelli e produca le vulnerabilità dellə richiedenti protezione internazionale.

Per concludere, la vulnerabilità può essere considerata la chiave per riflettere anche su un’altra questione, di certo ben più ampia, ma senza dubbio collocata nello snodo che lega non solo diritto e politica, ma anche soggettività e potere. Definire la vulnerabilità, operazione che comprende la ricerca del suo significato, la formulazione dei criteri per individuarla, l’elaborazione degli strumenti adeguati per gestirla, fa emergere in sostanza la necessità di riflettere, se necessario mettere in discussione, sulle modalità con cui il diritto non solo traduce l’alterità, ma ancor prima dà nome, e limiti, ai suoi soggetti per esercitare le sue funzioni, tanto di regolazione quanto di protezione. Se questo è vero, e tenendo a mente l’interazione tra i valori fondanti della comunità europea e le modalità attuali della sua proiezione esterna, mantenere uno sguardo critico su ciò che si muove attorno alla vulnerabilità assume l’impellenza di un compito urgente. 


*Davide Tomaselli è studente di relazioni internazionali all’Università di Firenze e allievo di scienze politiche alla Scuola Sant’Anna, nei suoi studi si occupa di diritto delle migrazioni e studi di genere

[1] Cf. Catriona Mackenzie, Wendy Rogers, e Susan Dodds, a c. di, Vulnerability: New Essays in Ethics and Feminist Philosophy, Studies in Feminist Philosophy (New York: Oxford University Press, 2013).

[2] Cf. Noemi Martorano e Massimo Prearo, a c. di, Migranti LGBT: pratiche, politiche e contesti di accoglienza. (Pisa: Edizioni ETS, 2020).

[3] Cf. Martha Fineman, «The Vulnerable Subject and the Responsive State», Emory Law Journal 60, n. 2 (2010): 251–75; Judith Butler, Zeynep Gambetti, e Leticia Sabsay, a c. di, Vulnerability in Resistance (Durham: Duke University Press, 2016).

Tags: OIM, politiche di esternalizzazione, vittime di tratta, vulnerabilità

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